“Date a Cesare quel che è di Cesare, pagate le tasse”. Così papa Francesco all’Angelus di domenica 18 ottobre dalla finestra del palazzo apostolico. Il cristiano, disse, deve contribuire a costruire una civiltà giusta e fraterna. E concluse categorico: “Le tasse vanno pagate, è un dovere dei cittadini osservare le leggi dello Stato”. Non c’è molta distanza fra le trasparenti parole pronunciate dal pontefice e ciò che reclama a gran voce Beppe Grillo che, a sentire l’ex amico e manager Lello Liguori intervistato da Libero lunedì 7 dicembre, qualche leggerezza contabile la commise quando, giovane comico, si esibiva al Covo di Nord Est a S. Margherita Ligure.
Grillo chiede che la Chiesa saldi gli arretrati dell’Ici, l’imposta comunale sugli immobili in vigore fino al 2012 che il governo Monti sostituì con l’Imu, l’imposta municipale unica. Entrambe dovute ai Comuni per i fabbricati ad uso commerciale di cui la Chiesa è titolare sul territorio italiano. Il debito fu accumulato tra il 2006 e il 2011 con la deroga concessa dal governo Berlusconi successivamente giudicata irregolare. Nel 2018 la Corte di giustizia Ue ha infatti stabilito che l’esenzione fu un illegittimo aiuto di Stato e danneggiava le attività commerciali non ecclesiastiche. L’Italia, alla strenua ricerca di capitali per ripianare il debito pubblico, deve riscuotere ciò che le spetta.
Il difficile è definire il quantum da recuperare. Quali immobili della Chiesa sono da considerare attività commerciali? E come si fa a controllare oggi come furono utilizzati fra il 2006 e il 2011? Non esistono database e strumenti tecnologici che abbiano memorizzato i dati richiesti nell’arco di tempo che va da 9 a 13 anni fa. Gli immobili non vanno confusi con i beni interni alla Santa Sede esenti da tasse e con quelli degli Ordini religiosi, le strutture ricettive di turismo religioso di cui si discute da anni. E bisogna fare attenzione a non colpire le aree della solidarietà e dell’assistenza, gli oratori, gli spazi parrocchiali, le mense per i poveri che commerciali non sono.
Bruxelles suggerisce di quantificare il debito con l’obbligo di autocertificazione o con controlli ispettivi in loco. Secondo la proposta di legge presentata dal senatore M5s Elio Iannutti nel 2019, le associazioni o società legate alla religione cattolica o le congregazioni il cui giro d’affari “sia pari o superiore ai 100 mila euro annui” sono tenuti a farsi convalidare i bilanci da un certificatore esterno che se ne assuma la piena responsabilità. In caso di bilancio non veritiero, ne risponderebbe penalmente rischiando condanne da 3 a 5 anni. Non c’è uniformità sulle cifre. Grillo parla di un debito di 3 miliardi, altre fonti di 100 milioni l’anno per sei anni.
Come si diceva il problema riguarda solo gli arretrati. Il decreto fiscale Salva Italia voluto dal premier Mario Monti nel 2012, in un momento drammatico per la tenuta economica del Paese, esonerò la Chiesa dal pagamento dell’Ici laddove gli immobili ecclesiastici sul territorio italiano non svolgessero attività economiche. Sono esenti i fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana. Sia il papa che la conferenza episcopale italiana hanno a più riprese ribadito che la Chiesa è pronta a fare la sua parte.
Ciò non ha impedito che si aprissero in anni recenti e tuttora siano aperti contenziosi fra enti pubblici e istituzioni ecclesiastiche sulle imposte non pagate. Padre Juan Antonio Guerrero Alves, prefetto della Segreteria Economica e uomo di fiducia di papa Francesco, ha di recente precisato che “le tasse pagate allo Stato italiano ammontano a 17 milioni di euro tra l’Imu sugli immobili con finalità commerciali, la Tares sui rifiuti e altre imposte che il Vaticano versa ai comuni di Roma e Castelgandolfo”. L’Imu viene pagata da Apsa (l’amministrazione del patrimonio della sede apostolica), da Propaganda Fide, dal Vicariato di Roma, dalla Cei, dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e dagli altri dicasteri.
Il bilancio preventivo della Santa Sede per il 2020 è stato approvato con 53 milioni di deficit, 269 di entrate e 322 milioni di uscite. Gli introiti della Santa Sede sono i ricavi dalle attività immobiliari e commerciali, le donazioni ricevute dai benefattori, dallo Ior e dal Governatorato (che incassa gli introiti dei Musei Vaticani), gli investimenti finanziari, i contributi dalle diocesi e dalle conferenze episcopali. I costi che la Santa Sede sostiene sono per il 44% le spese del personale, altrettanto per i costi di manutenzione del patrimonio immobiliare e delle nunziature nel mondo, per le tasse, le attività caritative (il Vaticano dona 24 milioni l’anno) e altri residui.
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