Di Natali nella mia vita ne ho passati molti! Rammento quello angoscioso – soprattutto per i miei genitori – del 1943: vedo ancora il candido grembiule da cucina di mia madre, tutto imbrattato di sangue vivo, rosso, ancora umido, con il quale aveva prestato il primo aiuto ai feriti colpiti da un terribile bombardamento. Devo affidarmi, invece, alle testimonianze dei miei fratelli e degli abitanti della via per poter raccontare che io, ospite di una mia zia, fui estratto vivo dalle macerie solo perché lei ebbe l’immediatezza di mettermi al riparo sotto un grande tavolo, non senza prima di pormi tra le mani il piccolo Gesù di gesso che tolse dal presepio. Da quel giorno, in contrada venni soprannominato “Dodo, il miracolato”.
Ricordo il Natale triste, malinconico e appartato passato con mia madre pochi giorni dopo l’improvvisa morte di mio padre. Eravamo in casa noi due soli, ma all’ora di pranzo arrivò il vicario della parrocchia perché voleva passare il Natale con noi.
Più tardi, arrivarono i Natali densi della gaiezza giovanile, ma saturi di silenzio. Quando la vigilia stava per finire, magari sotto un vento gelido, con un gruppo di amici raggiungevo un paesello – allora mezzo disabitato – delle piccole Dolomiti, incastrato tra le moli del Pasubio e di Cima Carega e contornato da altri giganti invisibili. La neve spesso era molto alta e faticavamo a trascinarci sul sentiero. Sprofondavamo nella coltre bianca perché non avevamo né sci, né slittini, solo delle pelli che ricoprivano alti scarponi. Nella casa che ci aspettava eravamo attesi: la cordialità della semplice gente di montagna, il tepore delle stanze, una parca cena innaffiata da un buon Garganego ci davano calore ed infondevano allegria. A mezzanotte il nostro “don” celebrava la Messa in una chiesina e a noi si associava una trentina di abitanti del luogo. Era il Natale “sobrio” vissuto sotto la neve che cadeva a bioccoli larghi e asciutti, un Natale infinitamente bianco, salutato dalla voce delle cante natalizie, trasfuse nel bronzo di una campanina squillante e dalle note della fisarmonica che Pippo suonava.
Quello di quest’anno è un Natale vacillante tra trepidazione e speranza. Siamo tutti angosciati e disorientati. Scoraggiamento e rimpianto hanno minato il cuore. Ad atti di vero eroismo s’intrecciano momenti di paura. Chi ha fede guarda in Alto, Gli rivolge domande che non trovano risposta. E c’è perfino chi usa la fede in maniera strumentale e lancia proclami quasi blasfemi: “Ci hanno rubato il Natale!”, come se per dirsi credenti si avesse bisogno sempre e comunque di un nemico da combattere. Quale Natale? Quello del cenone e della baldoria o quello dell’intimità della famiglia che si riunisce intorno ad un desco dove il cibo è di tutti e per tutti e dove tutti aprono la bocca non solo per assaporare il cibo preparato con amore, ma per alimentarsi anche delle parole che escono dalla voce dei familiari? O è quello simbolico della povera gente che lascia la tavola intatta per chi dovese bussare alla porta? Quale Natale? Quello delle strade illuminate a festa trasformate da luogo d’incontro in occasione per schivare chi ci è antipatico perché non la pensa come noi o quello di coloro che rinunciano all’intimità familiare per servire un pranzo agli scartati? Quale Natale? Quello della messa di mezzanotte, magari col suo corteggio di stelle, di canti tradizionali, di signore impellicciate che assistono al ricordo di un Bambino che nasce al freddo, in una stalla, ha per culla una greppia e si inteneriscono a quel pensiero, mentre la loro “serva” nigeriana è rimasta sola nella casa che non è la sua e piange al ricordo dei figli lontani? Quale Natale? Quello dei bambini che hanno ancora bisogno di favole con la loro scenografia di neve, di abeti, di regali o quello del battezzato che sfugge al Natale cartolinesco, apre i suoi occhi e soprattutto il suo cuore all’incontro con Lui?
“Chi sei tu?” – chiedono i sacerdoti e i leviti a Giovanni il Battezzatore, che risponde richiamandosi ad Isaia: “Io sono voce di uno che grida nel deserto”. Giovanni è la voce, non la Parola. È Cristo la Parola che era nel principio. Anche ai nostri giorni ci sono coloro che prestano la loro voce alla Parola, ma non vengono ascoltati come se il loro richiamo cadesse nel vuoto abissale. Primo fra tutti papa Francesco. Se i loro avvertimenti venissero accolti, smaschererebbero i pericolosi pregiudizi del nostro tempo ridotti a contrapposizioni e aprirebbero ad un mondo nuovo dove l’ “io” diverrebbe un “noi” e ognuno sarebbe responsabile, corresponsabile dell’altro, accoglierebbe il grido del dolore innocente che sale dagli oppressi di questo mondo in Cielo.
Leggendo il Vangelo, mi viene il dubbio che siano proprio gli interlocutori in crisi di identità e la domanda rivolta a Giovanni diventa: “Chi sono io?”. Sono un cristiano che si accontenta di briciole devozionali e sentimentaliste, un laico che vive nel mondo, ha una famiglia, partecipa alla vita sociale del Paese, ma spesso non si impegna per raddrizzare le strade a Colui che viene. I miei sandali sono ricoperti dalla polvere dell’abitudine, della stanchezza, del ritualismo convenzionale, mentre dovrei cogliere la novità di vita anche in questo periodo di pandemia. “Nulla sarà come prima” – ripetiamo mentre seppelliamo i nostri morti. C’è voluto un virus per ricordarci la caducità e la precarietà della vita terrena. Non è solo il virus che colpisce il corpo nella malattia. Siamo malati noi, è la società che è malata e il nemico invisibile è venuto a sconvolgere i nostri progetti, la nostra quiete, quasi per salvarci dal baratro in cui stavamo per cadere. E per rinnovarci occorre avere speranza e decisione nello scegliere tra ciò che è essenziale e il superfluo.
Nell’oscurità di questa notte che ci investe resta la speranza che vi sarà un tempo nel quale la notte sarà vinta dalla luce del giorno e in cui lo Spirito del Signore farà germogliare dal tronco di Jesse una nuova vita: è la fede in Colui che attendiamo che diventa “speranza di cose certe”: della giustizia, dell’equità, della fedeltà…Gesù è il garante di un’alleanza migliore continuamente presente attraverso l’opera e il servizio di ogni uomo che Egli ama.
E assieme alla speranza c’è la consolazione di sapere che non siamo soli in questa tempesta che si è abbattuta sul mondo: “Siamo tutti sulla stessa barca!” continuiamo a ripeterci. “Non vada perduto quanto abbiamo visto e imparato nel far fronte alla pandemia” ci ripete l’arcivescovo Mario. E continua: “Tocca a noi!” È la logica del Vangelo, l’ora di unirci per vincere le sfide e rinnovare la nostra vita personale e la società: passare dall’individualismo alla fraternità, rivedere la politica e l’economia alla luce dell’etica, riappropriarci della politica alla luce della solidarietà, ripensare lo stato sociale, la scuola. Sembra un’impresa difficile, ma Giovanni Battista ci invita a prendere sul serio la nostra vita interiore che ci impegna ad imboccare la nuova strada a tratti faticosa perché in lotta con la prepotente voce del mondo.
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