Mirella ha due anni e mezzo. Giovanna, sua madre, fa parte di quelle migliaia di persone che asintomatiche o con lievi sintomi sono costrette a vivere da 14 sino a 21 giorni in condizioni di isolamento domiciliare. È la faccia meno drammatica, ma non per questo meno faticosa, della pandemia di COVID-19.
Mirella non sa ovviamente nulla di coronavirus, medicine, rianimazioni. Sa che di là dalla porta c’è la mamma. Si è portata dietro materassino e bambola preferita e alla mamma racconta ad alta voce storie inventate, ispirate alle figure del libro che ha davanti.
Ci sono fotografie (questa scattata da un medico varesino), che a volte descrivono la situazione meglio di un libro di duecento pagine.
Da quando è iniziata la seconda ondata dell’epidemia infatti guardo spesso ai bambini. I nipoti all’uscita della scuola, i piccoli nelle loro famiglie, i ragazzi a Messa. Non solo per la loro beata innocenza ma per catturare un punto di ripartenza in queste settimane così grigie e ansiolitiche dove la dignità e la voglia di riscatto di marzo hanno lasciato il posto ad una sorta di iroso ‘cupio dissolvi’.
“I miei figli non smettono mai di sorprendermi” racconta lo scrittore spagnolo Jesus Montiel “Durante il lock down non hanno pronunciato una sola lamentela, a differenza di noi adulti. Accettano la situazione perché’ la vera normalità di un bambino è la sua famiglia. Ci bastate voi-dicono. Sono la prova che non siamo fatti per i grandi progetti ma per vivere amando ed essendo amati”.
Gli fa eco Davide da Ascoli Piceno: “Qualche giorno fa stavo insegnando a mio figlio di due anni e mezzo a saltare i gradini di casa. Ad ogni salto riuscito, fissavamo il punto di partenza in un gradino più alto. Ad un certo punto lui si blocca. Poi alza lo sguardo, mi fissa e dice: Babbo ho paura. Abbraccio! Io mi avvicino, allargo le braccia e lui si butta senza esitazione. Mi ha colpito accorgermi come mio figlio riesca con semplicità a dire che ha paura. Ma può dirlo perché’ ha di fronte l’abbraccio del padre”.
Non si tratta di proporre come modello un infantilismo. Né tanto meno di chiudere gli occhi al dramma della realtà ritornando indietro nel tempo. Piuttosto ripescare quella posizione originaria di rapporto con una Presenza che ha permesso ad ognuno di noi di diventare adulti. Il servo di Dio Don Giussani amava ripetere che “tornare bambini come ci chiede il Vangelo è una questione molto adulta”.
Non siamo soli anche in questa difficile situazione della pandemia. C’è un Padre che ci ama e che, incarnato nel Figlio, è diventato nostra compagnia nella strada di tutti i giorni: Il Natale che tra breve arriverà, celebra proprio questo.
“Quando sei qui con me” cantava Mina “questa stanza non ha più pareti”. Proprio come la stanza di Giovanna che la certa innocenza di Mirella spalanca all’infinito rompendo l’isolamento della malattia.
Ma noi ce l’abbiamo uno a cui domandare “Quando sei qui con me…”?
You must be logged in to post a comment Login