Sbandierare la difesa a oltranza delle proprie origini non è valorizzare l’appartenenza a un territorio, che è una dimensione affettiva e culturale senza bandiere, identità politica o paladini istituzionali.
Eppure da più di vent’anni tutto quanto è patrimonio locale, dalla lingua all’ambiente, dagli eventi organizzati all’utilizzo del dialetto sono stati, con preciso intento politico, “tinteggiati di verde”, quasi fossero appannaggio esclusivo di un’unica parte politica. Una appropriazione culturale un po’ grossolana, che risponde alla strategia di un allargamento del consenso.
Sono varesina, parlo e scrivo in dialetto ma la toponomastica in doppia lingua mi infastidisce: la considero uno sgarbo all’amore per la nostra storia, il nostro territorio, la nostra cultura. Una storia che, proprio in questa città, ha segnato la prima tappa del cammino verso l’unità d’Italia. Un territorio dagli ampi tratti identitari insubri, che ne caratterizzano l’ambiente, lo sviluppo e le tradizioni. Una cultura che ha assunto nel tempo una fisionomia composita e non solo di ascendenza celtica o longobarda, ma che si è arricchita dalla mescolanza naturale delle storie e delle tradizioni di tutti coloro che questa terra e questi luoghi li hanno abitati e vissuti.
La nostra storia cittadina poggia sui valori patriottici, egualitari e democratici, che non si possono ignorare o snobbare: i varesini sono figli della prima delle città liberate dal dominio austriaco in nome della volontà di costruire una patria unitaria e sono anche figli della Resistenza e della lotta per la democrazia e la libertà.
Come dire che questi valori ce li abbiamo nel DNA. Poi è scelta individuale sostenerli o rinnegarli. Ma i colori della patria e della liberazione dalla nostra storia locale e cittadina sono indelebili.
La varesinità non è nemmeno un diritto di nascita, ma è questione di cuore: conosco persone che in questa città sono nate eppure ne parlano con atteggiamento di sprezzante sufficienza ed ho amici che provengono da altre regioni d’Italia o dall’estero e amano i nostri luoghi, ne raccontano con entusiasmo le bellezze naturali e si sentono a proprio agio qui come nella loro terra d’origine.
Ancor più inaccettabile è pensare alla varesinità come ad una presunta categoria morale: noi siamo nel giusto, gli altri (che di volta in volta sono cambiati e prima erano i meridionali, poi sono diventati gli abitanti dell’Europa orientale e ora si sono aggiunti gli immigrati extracomunitari) decisamente meno. Lo dico perché proprio di recente una signora della nostra città mi ha detto esplicitamente che dovremmo rifiutarci di dare anche solo un piatto di minestra agli stranieri in fila davanti alla mensa dei poveri perché, passando, lei vede che tutti hanno il cellulare. Forse che la varesinità ci dà il diritto di vivere con i nostri cari, mentre un ragazzo povero e lontano dalla propria terra, per avere diritto alla fraterna accoglienza, deve rinunciare a tenere vicini al cuore, con una telefonata magari una volta alla settimana, una mamma, una moglie o dei bambini?
La stessa politica ha fatto leva sulla difesa del territorio locale dai “latrocini” della politica nazionale. Allora la varesinità consiste nel fatto che la nostra, assieme a Bergamo, è la città in cui si pagano più tasse, oppure che il nostro comune, come tutti, sia soffocato dal forte dimagramento delle risorse statali, in atto fin dal precedente governo senza che i difensori del territorio abbiano posto dei limiti alle riduzioni agli enti locali? O magari sta nell’avere tacitamente lasciato per almeno due decenni di amministrazione cittadina che Varese sia collegata al capoluogo di regione con infrastrutture antiquate, mentre una metropolitana leggera, al posto di progetti faraonici, sarebbe più utile per tutti e risponderebbe a buona parte dei problemi del trasporto?
Credo sia più dignitoso ridare respiro al senso di appartenenza e di identità e lasciare che ognuno li viva in modo soggettivo. Non sono dei limiti geografici, fissati sulle carte, a definire il sentirsi parte o meno di una comunità e della sua cultura, ma è il respiro familiare delle persone, dei luoghi, dei ricordi e del pensare comune.
Né il luogo di nascita e ogni presunto pedigree generazionale rendono innato il bene per la terra madre, come dovremmo in fondo chiamare quella nella quale siamo più veri e che amiamo.
Si appartiene a un territorio rispettandone il passato, avendone a cuore il presente, pensandone il futuro e valorizzando la ricchezza che ognuno porta con sé, indipendentemente da dove provenga.
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