“Autunno, stagione sleale” è un aforisma di Gesualdo Bufalino che a buon diritto potrebbe definire sleale la nostra limitata capacità di ricordare. I cento anni dalla sua nascita, 15 novembre 1920, sono passati, infatti, un pochetto sottotono. Anche se non sono mancati doverosi momenti di omaggio, la sua scrittura, intreccio di moralismo e di latente ironia, meriterebbe una rinnovata attenzione, e non limitata alle celebrazioni, rigorosamente on line, organizzate dalla Fondazione a lui intitolata. Ha quindi ben fatto Alessandro Zaccuri, in un interessante articolo, pubblicato proprio il giorno del suo compleanno sulle pagine di Avvenire, a sottolinearne la sicilianità cosmopolita. Valutazione che da sola inviterebbe a conoscere o a rileggere lo scrittore di Comiso.
Sapendo anche che è tornata in libreria – sono le parole di Giuseppe Matarazzo – l’unica favola per bambini scritta da Bufalino, una storia magica sulla noia e sulla morte, non possiamo sprecare, indipendentemente dall’anniversario, l’occasione di lasciarci sorprendere dalla sua scrittura, articolatissima, di grande fascino, come la sua vita, al di là dell’apparente ordinarietà. Proveniente da una famiglia di modesta istruzione, ebbe la possibilità di frequentare il liceo classico di Ragusa. Vinse un concorso che aveva come tema l’orazione di Cicerone, la Pro Archia, difesa del valore della cultura. Vincitore anche di un secondo concorso sull’Esposizione Universale del 1942 non poté recarsi a Roma a causa della guerra.
Pur definendo la sua terra “un paese all’estrema periferia geografica e culturale dell’Italia”, si appassionò alla letteratura francese. Iscritto all’Università, non ebbe la possibilità di frequentare ma solo di sostenere gli esami. E la guerra entrò con prepotenza nella sua vita: chiamato alle armi, fatto prigioniero, riuscì a fuggire. Insomma la terribile vita, quasi ordinaria di quegli anni. Diventò supplente a Scandiano iniziando così la sua vita da insegnante. Si ammalò di quella malattia che spesso, nella nostra memoria, abbiamo relegato alla sofferenza di eroine con gelide manine e dal pallore esangue. La tubercolosi fu una falce terribile.
E anche Bufalino, come il protagonista di “Diceria dell’untore”, il suo più celebre romanzo, con cui vinse il Campiello, sentiva che la morte “alitava accanto la sua versatile e ubiqua presenza”. Per molti il nome di Gesualdo Bufalino è associato a quel suo primo romanzo. Nel 1981 fu certamente un caso letterario e un best seller. Il romanzo, tenuto nel cassetto per anni, iniziato nel 1950 e meticolosamente revisionato molte volte, fu pubblicato grazie all’insistenza di Leonardo Sciascia che conosceva quel professore di sessantun anni, perché aveva pubblicato un libro su Comiso.
Nel romanzo si racconta, di fatto, una storia d’amore.
Ma l’ambientazione, nel 1946, in un sanatorio vicino a Palermo, la convivenza di reduci della guerra rendono la sofferta storia d’amore, tra due ricoverati, un affresco doloroso, senza lo struggente sentimento romantico. La morte ghermisce i corpi e i sogni e i veri protagonisti sono la solitudine e la disperazione, in cui le voci spesso sono drammaticamente tarpate.
Leggere oggi quelle pagine, che ci buttano dentro ad una esperienza di contagio e di morte, ci ricorda non solo una terribile malattia, quasi dimenticata o censurata, che Bufalino visse in prima persona, ma come l’occupazione di quei malati era parlare, divagare, raccontare storie agli altri e a se stessi.
Questo non è solo letteratura ma la richiesta più forte della vita, ieri come oggi. Rileggere Bufalino significa soprattutto questo. Testimoniò con forza in “Diceria dell’untore”, ma anche nei successivi romanzi, come la parola sia la ricchezza del pensiero, linfa da non far mai inaridire. Proprio per questo si deve apprezzare la sua capacità linguistica, turgida, baroccheggiante. Scrittura gonfia di vita, con ostinazione, nonostante tutto.
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