La sera del 17 dicembre del 1911, il Teatro alla Scala si apprestava ad inaugurare, come di consueto, la stagione musicale. Quell’anno, l’opera in programmazione per l’ambita prima serata era l’Armida, del prolifico compositore tedesco settecentesco Christoph Willibald Gluck. Sul podio, a dirigere l’orchestra, il maestro Tullio Serafin, che da tre anni aveva sostituito Arturo Toscanini, trasferitosi a New York. Le cronache registrarono il successo. Grande apprezzamento da parte del pubblico fu manifestato nei confronti dell’interprete principale, il soprano Eugenia Burzio, e del direttore d’orchestra.
Doveva essere, quella prima serata inaugurale, anche l’occasione per sventolare il tricolore. Doveva essere, come scrisse il cronista del «Corriere della Sera», «una serata grandiosa d’arte e di patriottismo»: tutto l’incasso sarebbe stato versato alla Croce Rossa italiana e al Comitato nazionale per i soccorsi alle famiglie bisognose dei militari morti o feriti in guerra.
Le pagine dei giornali di quel periodo, infatti, dedicavano ampio spazio alla guerra che l’Italia aveva intrapreso contro l’Impero ottomano per il possesso della Tripolitania e della Cirenaica. Era la guerra di Libia, come la chiamarono i nazionalisti, ricordata dai libri di storia come il conflitto italo-turco. Una guerra importante, benché spesso trascurata. Importante per la mobilitazione dell’opinione pubblica, per la censura imposta alla stampa, per la sperimentazione di nuovi strumenti bellici (per la prima volta, ad esempio, furono utilizzati aeroplani, accanto ai dirigibili, non più solo per effettuare ricognizioni, ma per sganciare bombe). E importante anche perché vedeva l’Italia, a cinquant’anni dall’Unità, ritornare in Africa con ambizioni da grande potenza coloniale dopo la solenne batosta subita dall’Impero etiope ad Adua il 1° marzo del 1896.
Dunque…, il teatro era pieno ed era pieno di tutta quella bella gente che solitamente affolla la prima della Scala. Alle 21, l’orchestra decise di aprire la serata suonando la Marcia reale. Tutti, in platea come nei palchi, si alzarono in piedi. Non proprio tutti, in verità…
Era rimasto seduto solo uno spettatore. Subito incalzato dai vicini di posto ad alzarsi in piedi, questi rispose che era suo diritto restare seduto. Il battibecco attirò la curiosità del pubblico e da più parti si alzarono grida che invitavano il nostro ad alzarsi. L’orchestra, allora, ripeté per la seconda volta l’esecuzione della musica, che, a quel tempo, era l’inno nazionale. Ma quell’unico spettatore disobbediente se ne restò seduto. Il pacifico atto di disobbedienza del nostro spettatore «spiacque – come riferì egli stesso – ai signori nazionalisti», che «avevano dato per la patria e per il re, per i feriti e pei morti il meglio che potevano dare: 10 lire d’ingresso, degli sparati bianchi, applausi senza economia e la gioia d’ammirarsi per tutta la sera come modelli d’eleganza e di fervore patriottico».
La situazione degenerò. Gli eleganti patriottici iniziarono a minacciare e ad agitare i pugni. La polizia lo trascinò fuori dalla sala.
Il personaggio in questione si chiamava Ettore Albini. Era nato a Milano nel 1869 e aveva lavorato come ragioniere presso la Cassa di Risparmio di Milano. Era poi diventato un apprezzato critico teatrale e musicale e in questa veste, quale firma molto nota dell’«Avanti!», seguiva gli spettacoli presso il Teatro della Scala.
Il sabato successivo alla prima, Albini si vide recapitare dal segretario del teatro una comunicazione con la quale, per ordine del duca Uberto Visconti di Modrone, presidente della società che gestiva la Scala, non avrebbe più avuto accesso alle prove generali, seguite normalmente dai critici musicali. Questa iniziativa non piacque ai giornalisti lombardi né alla Direzione del teatro. Prese carta e penna, in quell’occasione, lo stesso Filippo Turati, che inviò un’interrogazione al Sindaco della città, «per sapere se, e in virtù di quali ignorate convenzioni, il massimo teatro milanese poté divenire la dépendance del privato domicilio di un benemerito patrizio milanese». Dello stesso tono fu l’interpellanza che i rappresentanti del Partito socialista presso il Consiglio comunale cittadino inoltrarono alla Giunta. La questione sarebbe stata oggetto di dibattito in Consiglio comunale, se non fosse stata risolta “amichevolmente” il 29 dicembre. Grazie alla mediazione di Renzo Sonzogno, della famosa dinastia di tipografi ed editori ed editore musicale egli stesso, Ettore Albini e Uberto Visconti di Modrone ebbero modo di giungere ad un chiarimento e ad una stretta di mano pacificatrice. Albini ribadì che la decisione di non alzarsi in piedi all’esecuzione della Marcia Reale fu dettata dalle sue convinzioni politiche, non intendendo, evidentemente, recare offesa alla persona del duca.
Ettore Albini era amico di Turati. Fu segretario di redazione della «Critica sociale». Quando Turati fu costretto ad abbandonare l’Italia tra novembre e dicembre del 1926, Albini lo ospitò nella sua casa di Caronno Varesino (all’epoca si chiamava Caronno Ghiringhello) per undici giorni. Per questo fu poi arrestato e processato a Savona insieme a Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini ed altri.
Il 25 aprile del 1945, fu nominato dal Cln Sindaco di Caronno, incarico che rivestì sino alle elezioni amministrative del 1946. Poi, ritornò alle sue letture e alla sua vita riservata, sino alla morte, sopraggiunta nell’estate del 1954.
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