Nel ritornare a ragionare sulla città, risulta evidente che il punto di snodo restano le periferie. E sempre di più, chi studia lo sviluppo urbano è costretto a fare i conti con i margini del territorio. Ad esempio, in uno degli studi più recenti, Adriano Cancellieri e Giada Peterle (“Quartieri: viaggio al centro delle periferie”, 2019, editore Becco Giallo) partono dalle periferie delle grandi città (Zen a Palermo, Tor Bella Monaca a Roma, ad esempio) per cogliere non solo i disagi ma anche le forze più vitali di questi territori.
Anche lo studio “La città abbandonata: dove sono e come cambiano le periferie italiane” curato da M. Magatti per Il Mulino punta a ragionare sulle trasformazioni strutturali, sugli errori di sviluppo e insieme sulle esperienze umane di chi abita nelle fasce più esterne.
Certo, parlare delle periferie di Varese non significa parlare, grazie a Dio, di degrado come nelle grandi città. Qui è più opportuno parlare di occasioni mancate, di sviluppo non guidato, di assenza di un progetto specifico: in altre parole, di una insufficiente attenzione.
Il tema dei quartieri che circondano la città diventa così, per forza di cose, fondamentale se si vuole parlare di città o meglio dell’uomo nella città. Per quanto riguarda Varese avevamo già avuto modo di parlare di Belforte come simbolo di tante periferie (“Linea N” su RMF on line del 25 settembre). E avevamo raccolto con interesse il dibattito aperto dagli articoli di Costante Portatadino, che in modo acuto aveva avanzato la necessità di un “patto fondativo” (“Valorizzare le periferie” su RMF on line del 18 settembre) per ripensare la città. Scriveva Portatadino: “La priorità che voglio affermare per riproporre un patto fondativo è la rivalorizzazione delle periferie come luoghi di vita attiva e centro di servizi, non più solo come residenze meno onerose ma più sacrificate rispetto al centro o ai quartieri a vocazione residenziale medio-alto borghese”.
Ritornando a Belforte, come simbolo di tante periferie, avevamo cercato di cogliere i segni progressivi del cambiamento, dei segnali che non erano stati colti, delle difficoltà nel pensare il futuro di questi territori. E questo luogo che si è ridotto ad essere un viale di scorrimento verso il centro, non è mai diventato un “paese”. E tutti i segni di mutamento del dopoguerra, che Belforte ha vissuto con l’intensità di tutte le periferie, non sono stati pensati, guidati e digeriti di chi avrebbe dovuto pensarli, guidarli e farli digerire. Ad affrontare i cambiamenti in atto, da quelli delle genti a quelle delle fabbriche e dei negozi, le persone del viale si sono sentite sole.
I segnali erano a volte evidenti e immediati. Altre volte erano segnali minimi, insignificanti, su cui non valeva la pena forse ragionare. Come ad esempio la scomparsa degli orti. Nessuno si era accorto che erano scomparsi gli orti. Sembra un dettaglio, una cosa da niente. Eppure ogni casa, nel dopoguerra, aveva il suo orto e il suo piccolo frutteto, ad uso della famiglia. Quella verdura creava un legame non solo economico ma sociale, diventava oggetto di scambio, di relazione, di conoscenza. A Belforte, tra via Laurana e via Tirana, era sorta la Casa Pontiggia, un condominio di quattro piani con decine di appartamenti ognuno con in dotazione un orto di proprietà. Era una scelta non solo edilizia. Era un segno dei tempi, era un’attenzione coinvolgeva le mura domestiche. Anche il primo pensiero di mio padre, quando aveva costruito nel 1951 la villetta sull’angolo di via Podgora, era stato quello di creare uno spazio per pomodori e insalate. Si veniva da anni in cui si era dato un valore pratico (e in certi anni anche simbolico) al favorire la creazioni di orti di famiglia. Poi erano venuti gli anni del benessere e per le zucchine e la cicoria non c’era più stata né la necessità né il tempo né lo spazio. E forse neppure il piacere, demandato ai supermercati dove tutto era lì pronto senza fatica.
Le periferie sono rimaste nelle mani del caso, sia dal punto di vista edilizio che da quello sociale. La vitalità di questi luoghi, la cura della sua gente, in altre parole “la felicità”, è stata ignorata da chi aveva in mano le leve e il portafoglio. Ne è derivata una delega spontanea, di comodo, a chi sul territorio viveva e cercava di viverci bene, in modo sereno, attento ai propri figli, al proprio lavoro, ai propri interessi sportivi e culturali. A Belforte il ruolo di supplenza, la fabbrica delle idee, è stato svolto dalla parrocchia del Lazzaretto e dal Circolo. E forse è giusto che sia stato così, perché ha creato relazioni, ha reso protagonisti, ma il ruolo di supporto economico o di “facilitatore” da parte dell’Amministrazione Centrale è stato insignificante. Ne è un esempio l’annosa storia del Castello. Negli anni chi ha guidato la città fin dai tempi della Democrazia Cristiana non ha compreso che la rinascita del Castello avrebbe potuto avere un valore non solo museale ma anche sociale: sarebbe stato un seme in un territorio che ci si era dimenticati di arare.
Il tema delle periferie, da quelle degradate a quelle semplicemente brutte o infelici, crea un dibattito da anni sul tavolo. Sulla necessità di portare lo sguardo a questi territori è tornato anche Renzo Piano, architetto e senatore, in un suo intervento sul Domenicale del Sole 24 ore. “Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni – ha scritto Renzo Piano – Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili?” E più avanti: “Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche”. Poi sottolinea la necessità di portare in questi territori un mix di funzioni, non solo di considerarle uno spazio per mettere case che non ci stanno più in centro. “Se si devono costruire nuovi ospedali – prosegue Renzo Piano – meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei, le università. Costruire dei luoghi per la gente, dei punti d’incontro, dove si condividono valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità”.
Alla necessità di questa nuovo e diverso sguardo, Renzo Piano crede da sempre, tanto è vero che con il suo stipendio da parlamentare ha assunto sei architetti giovani, che ruoteranno negli anni, con lo scopo esclusivo di occuparsi di come rendere migliori le periferie.
E allora ritornando a Belforte, non viene per caso il dubbio che Varese (la Varese democristiana, socialista, leghista, di centrosinistra) avrebbe potuto avere un’attenzione diversa alle periferie, almeno un pensiero, o meglio ancora un sogno diverso per le persone che qui vivono? Ecco, un sogno diverso.
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