Si amava la montagna ed ogni occasione era buona per ritagliarsi qualche giorno di vacanza. Quattro o cinque ragazzi in gruppo partivano da Varese in bicicletta ed arrancando sulle rampe della Valle Anzasca raggiungevano Macugnaga ai piedi del Monte Rosa. Vacanze povere per giovani squattrinati. In fondo al paese, al Pecetto, ci attendeva l’alberghetto dei Burghener , una ospitale famiglia Walser. C’era quasi sempre un letto per noi. Se questo mancava, perché inaspettati ospiti, rimanevano le chiavi della baita posta in fondo al prato. Lì si dormiva sul fieno, meno comodo di un giaciglio di piume, ma era una avventura aggiunta. Un divertimento assicurato di giochi e scherzi.
Non di montagna ma di lago vorrei però parlare in questa divagazione. Del nostro Lago Maggiore che attraversavamo da Laveno ad Intra per avviarci appunto in Val d’Ossola e poi su verso Mucugnaga. Traghettando, il percorso veniva enormemente ridotto e poi c’era il piacere di contemplare le acque e le sponde, quella “grassa” che si avvicinava e quella “magra” che si allontanava. Magra, chissà perché. Noi non ce lo spiegavamo.
L’attesa per imbarcarci non era lunga. Ci attendevano sempre il vecchio traghetto Sempione oppure il San Cristoforo. Ma se il tempo era bello e le acque tranquille prima di mettere piede su un battello si faceva il giro in darsena alla ricerca di qualche barcaiolo. Ve ne erano di professionisti che facevano il barcheggio tra Laveno ed Intra trasportando persone e merci. Un mestiere antico che è rimasto fino ai primi anni dell’ultimo dopo guerra. Non era difficile trovarne. Se poi ci si imbatteva in qualche barcaiolo di Intra, in attesa di rimediare un carico per il ritorno alla sua sponda, la tariffa era ancora più vantaggiosa. Una breve trattativa, poi su tutti, noi e le bici, e via. Qualcuno ci riteneva un po’ incoscienti perché barattavamo la minore sicurezza con un po’ di lirette spese in meno che ci rimanevano in tasca per altre spesucce. Certo le navi traghetto erano più veloci, le incrociavamo nella traversata, ma che importava se impiegavamo una mezz’ora in più? Non era il tempo a mancarci. Ma vogliamo mettere un viaggio sul San Cristoforo ed uno fatto in barca ? Spaparazzati al sole, cantando ritornelli di canzonette alla moda, magari col contributo vocale dello stesso “Caronte” che faticava sicuramente ma non ne dava a capire. Ogni tanto faceva una breve fermata. Allora non si sentiva più il fruscio delle acque né il battere dei remi e si era quasi cullati dalle leggere onde. Erano i momenti più belli. Affascinati dal trovarci piccini in una enorme conchiglia rappresentata dalle due sponde. Col tempo e con l’aiuto dei barcaioli avevamo imparato ad individuare luoghi e profili dell’orizzonte. Il Sasso del Ferro, i Pizzoni di Laveno, avanti fino alla punta di Caldé, caratteristica con la rocca e le fornaci. E, sull’altra sponda, la cascata di case che scendono nel verde da Premeno fino ad Intra. E più lontano il maestoso monte Zeda. Le sponde comunque ci davano sicurezza. Assai diverse erano le sensazioni che suscitavano le acque di questo enorme canale che andava da nord a sud. Dalla piana di Magadino a Sesto Calende. A nord una azzurra infinita distesa, senza soluzione visiva. Pensavamo alla Svizzera nascosta dietro un gomito di lago. A sud, sopratutto nelle ore mattutine prive di foschia, contemplavamo il centro lago con le isole e la bella Stresa che stava a rappresentare il fondale di un palcoscenico. Emozioni, suggestioni, poesia delle vette e delle acque. Di tutto un po’.
Mi tornavano questi ricordi qualche anno dopo, quando mi venne tra le mani un progetto che per me rappresentò una sorpresa. Si era nei primi anni ’50. L’Italia stava faticosamente riprendendosi dai danni della guerra. Il recupero era assai difficile dopo la riconversione dell’economia bellica. Partiti e sindacati erano convinti che la rinascita dovesse partire essenzialmente dalla messa in cantiere di grandi opere pubbliche. Vi erano quindi allo studio tanti nuovi progetti ma anche la ricerca di vecchie proposte. Tra questi sentii parlare di un’opera suggestiva: un ponte sul lago Maggiore, gettato tra la sponda lombarda e quella piemontese. La cosa mi incuriosì. Giovane giornalista alla ricerca sempre di fatti nuovi, fui abbastanza fortunato. Qualcuno ricordava che si era parlato di questo misterioso ponte in un lontano passato. Fu così che rinvenni negli archivi della Deputazione Provinciale di Varese (così si chiamava la Provincia prima di diventare Amministrazione Provinciale) due enormi faldoni, talmente ricchi da soddisfare tutta la mia curiosità. La Deputazione aveva sede nell’ex Palazzo del Littorio (ora sede della Questura) ed il Presidente dottor Luigi Roncari fu molto disponibile nel facilitarmi le ricerche. Tutto nasceva agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso. Il Fascismo si era ben assestato nel Paese e all’estero aveva aumentato il suo prestigio tanto da indurre grandi capitali stranieri a trovare impiego da noi. Capitali anche inglesi in quanto la Gran Bretagna non era ancora diventata quella “perfida Albione” che alcuni anni più tardi si sarebbe fatta promotrice delle sanzioni politiche ed economiche deliberate della Società delle Nazioni contro l’Italia quando fu aggredita l’Etiopia. Era appunto un grande gruppo finanziario britannico quello che si propose di costruire un ponte tra Laveno ed Intra. I contatti venivano ovviamente tenuti col governo di Roma ma questi, per questioni territoriali, non poteva fare a meno di coinvolgere anche la Provincia nostra. Ecco la ragione dei faldoni che, oltre alla corrispondenza intervenuta, riunivano minuziosamente tutti i progetti dell’opera. Un lavoro imponente che dimostrava di avere alle spalle uno studio serio ed approfondito come del resto richiedeva quell’impegno. Il parere del governo fascista appariva assai favorevole.
Ricordo ancora la sostanza di quelle carte. Si trattava praticamente di un enorme asse stradale realizzato con barche in cemento armato larghe una dozzina di metri ed incastrate l’una all’altra. Ne sarebbe nata, tra le due sponde del lago, una striscia d’asfalto con una ampia sede di scorrimento affiancata da due marciapiedi. Insomma non solo coi mezzi di locomozione ma anche a piedi l’altra riva appariva a portata delle persone. Alle due estremità l’accesso sul ponte veniva consentito da traller le cui funi tenevano sospeso l’avvio fino alla prima barca adagiata sull’acqua in modo da garantire, in prossimità delle due rive, un varco per il passaggio dei natanti. Non mancavano anche altri particolari esecutivi ed organizzativi. Per esempio i barconi necessari sarebbero stati costruiti in luogo a Laveno con un cantiere in prossimità dell’attuale Gaggetto. Né mancavano sia le previsioni del traffico generato sia del risultato economico.
Ovviamente gli investitori si aspettavano buoni ritorni dal pagamento dei pedaggi, perché questo effettivamente era il punto, il grande affare. Il problema del taglio netto in due parti del nostro lago, con tutte le conseguenze ambientali che avrebbe potuto generare, non veniva minimamente sfiorato da alcun documento. Qualche cenno al ponte sul Ceresio tra Bissone e Melide, con caratteristiche notoriamente assai diverse. Quello elvetico più che un ponte è un rilevato in terrapieno su di un basso fondale naturale della lunghezza di circa un chilometro. Quello che si voleva realizzare da noi era ben altra cosa per lunghezza ( almeno 4 volte tanto!) e per caratteristiche di un lago con profondità, venti e moti ondosi assai diversi. Certamente sarebbe stato come vedere una estesa diga, una incisione pesante sull’ambiente. Erano ovviamente analizzati solo i vantaggi economici che a prima vista nessuno avrebbe potuto sottovalutare. Ma quale il bilancio costi/benefici? Quali i costi sociali, storici, umani avrebbe comportato la distruzione di un paesaggio tanto amato non solo da noi lombardi e piemontesi ma da turisti di tutto il mondo?
Cambiarono i tempi ed i rapporti internazionali. Venne il conflitto mondiale e fortunatamente non se ne fece nulla.
Mentre esaminavo quelle carte pensai alle tante disgrazie che il fascismo aveva arrecato al nostro Paese, ma almeno la guerra alla perfida Albione ci aveva evitato la sciagura del ponte sul Lago Maggiore.
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