La pandemia interroga il pensiero. Ma la filosofia non dispensa ricette: offre punti di vista, fruga nelle aporie che si celano nei dilemmi delle scelte umane, va archeologicamente alle radici dell’oggi.
Nella dimensione ordinaria e tragica della vita, il soggetto è libero se la scelta concerne lui solo, ma è responsabile davanti a terzi se le sue scelte, private o pubbliche, ricadono sulle vite altrui, specie in consorzi dotati di istituzioni e apparati – come i sistemi sanitari – che presumono destini comuni.
In circostanze ordinarie le istituzioni delle democrazie consolidate si regolano secondo criteri di giustizia. Una società aperta compone la pluralità dei criteri ammissibili, ma davanti all’estremo non è in grado di sottoscrivere indirizzi assoluti o gerarchici che aiutino i decisori a stabilire chi va salvato e chi va esposto al rischio di perdere la vita. La filosofia non soccorre la società aperta quando non può dirimere le controversie: può limitarsi a descriverle e a mappare i rischi. E le è difficile configurare bene le responsabilità. Attenzione: non è un difetto delle società aperte; e anche se lo fosse, non giustificherebbe mai investiture decisioniste.
Il principio di prudenza che esclude modelli indesiderabili non evita la problematicità dei bilanci di giustizia, ne riduce solo il ventaglio. Un conto è respingere ordinamenti sociali iniquitari come gli Stati Uniti, ordinamenti politici prescrittivi dominati da un decisore monopolistico, come nei regimi autoritari, o le logiche arbitrarie dei comandi militari; un altro conto è prendere decisioni in situazioni che oltrepassano leggi, norme morali, senso comune, sedimenti d’esperienza e procedure.
Potremmo enumerare molti criteri che si elidono e contraddicono al punto da interdire scelte dirimenti. Un interessante esame di queste aporie si trova nei primi capitoli di un libro, Giustizia, di Michael Sandel, una brillante quanto discutibile philostar. Diverse scuole di pensiero hanno provato a sciogliere questa problematicità: la teoria dei sentimenti morali, fondata sulle emozioni simpatetiche; l’universalismo dei leggi e delle massime morali nella dottrina kantiana della ragion pratica; l’utilitarismo, che istituisce una gerarchia di importanza in nome del vantaggio del maggior numero; le dottrine della centralità dei valori religiosi in Kierkegaard e tra i comunitaristi; la ricerca del consenso mediante procedure comunicative, linguistiche e negoziali di tipo liberale in Apel e Rawls. Queste dottrine aporetiche e divergenti situano la scelta in spazi e tempi astratti, prescindono dal loro contrarsi o dilatarsi e dai decisori reali che operano in contesti peculiari, con il loro bagaglio specifico di esperienze, sentimenti, etiche professionali e procedure condivise.
Per uscire dai labirinti delle teorie e cercare risposte approssimative ma ragionevoli quanto basta, possiamo rimettere le decisioni alle istituzioni direttamente coinvolte. In contesti che assicurano il massimo possibile di deontologia, decisore ed esecutore coincidono. Le scelte si espongono a errori e insuccessi, ma hanno il vantaggio di essere intuitive, tempestive e puntuali, in sincronia con la contrazione del tempo e dello spazio.
Ogni giorno, in tutti gli ospedali del mondo, ci si imbatte in scelte drammatiche senza risposta. Già nella prima fase della pandemia il personale sanitario sollevò il tema della precedenza. Tutti fummo sopraffatti dall’urgenza. Nell’intervallo tra le due ondate, nemmeno la diluizione del tempo ha potuto aiutarci a risolvere i due dilemmi più grandi. Cosa scegliere in situazioni di emergenza, con l’aggravante delle carenze del sistema sanitario? E, anzitutto, chi sceglie?
La risposta non compete alla politica. In assenza di presupposti filosofici rigorosi, qualunque indirizzo proclamato dalle istituzioni rappresentative celerebbe un risvolto autoritario. Sia chiaro, la dittatura sanitaria è un’idiozia demagogica. Non si discute il legittimo titolo decisionale che spetta alla politica, con la responsabilità che comporta in un quadro democratico, bensì la capacità della politica di andare ai fondamenti e dirimere dilemmi così grandi. I convincimenti derivanti dalla filosofia o dalle fedi religiose non sono risolutivi; se assunti arbitrariamente a criterio universalistico, genererebbero paralizzanti lacerazioni. Meno ancora possiamo affidarci, in uno stato di emergenza, alla consuetudine procedurale, alla burocrazia, alle norme e alle leggi, con gli assurdi risvolti giudiziari che ne discenderebbero. Infine, la discrezionalità assoluta appare ancor più arbitraria e caotica.
In assenza di criteri a priori la decisione ha un’impronta circostanziale e puntuale. Solo l’equipe sanitaria, nel vivo della scelta, in tempi così contratti, ha gli strumenti per decidere il da farsi, a maggior ragione perché solo l’occhio clinico del personale medico e infermieristico può valutare i rischi di morte e comparare le possibilità di risposta dei pazienti alle terapie.
La valutazione dell’equipe sanitaria può comporre vari parametri (il più banale è la polarità vecchio-giovane) e cercare punti di mediazione. La domanda in ultima istanza è questa: se nessuno è insostituibile per la società e se ogni vita ha per principio pari dignità, l’equipe sanitaria sacrificherà il criterio di importanza alla logica egualitaria, con il risultato di far posto all’indesiderabile lotteria del chi arriva prima, o anteporrà il ricercatore scientifico al garzone del salumiere, l’adulto con tre figli al brillante laureando che non ne ha, mettendo in gioco un giudizio di valore?
Dovremmo liberarci dell’idea di errore, della pretesa di mediazioni perfette e del TAR del Lazio, il simbolo del bizantinismo giuridico. Il rischio non grava sull’equipe sanitaria, ma sulla collettività che le conferisce, in condizioni di emergenza, un insindacabile diritto di intenzione e di scelta.
Conveniamo che nessuno è infallibile e che il contesto decisionale non è mai incauto, non è mai incompetente, non è mai amorale e non è mai doloso. Questo “patto” risolve approssimativamente la domanda cruciale: come teniamo insieme la responsabilità, la fallibilità, la scelta non protocollabile e la coesione sociale? Fino a dove possiamo riformulare il principio di responsabilità, liberandolo da aloni moralistici e da pesantezze giuridiche e normative?
Per intanto poniamoci in condizione di affrontare i dilemmi al meglio. L’intuizione situazionale riduce i margini di errore se riceve informazioni. Le carte di identità e le tessere sanitarie elettroniche possono contenere notizie essenziali oltre all’età, al codice fiscale e all’indirizzo: le malattie pregresse, le terapie in atto, le analisi cliniche recenti, lo stato di famiglia, la professione, le utenze, la mobilità. Un sistema sanitario pubblico efficiente, articolato in diagnostica, medicina di base, monitoraggi, ambulatori. ospedali e rilevazioni statistiche, può aggiornare in tempo reale i supporti elettronici e rendere disponibili le informazioni in condizioni di urgenza. Il supporto cognitivo aiuterebbe l’occhio clinico a ridurre i rischi.
Non ci preoccupa il gap tecnologico da colmare, ma il gap politico e sistemico. I lombardi lo sanno bene, sulla loro pelle.
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