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L'antennato

QUARANTA IN QUARANTENA

STER - 20/11/2020

canale5Non è stato festeggiato come ci si sarebbe atteso – forse per via del clima plumbeo che si respira nel paese, forse perché come dicevano gli epicurei “lathe biosas” cioè vivi nascostamente che è meglio – ma la scorsa settimana, precisamente l’11 novembre, ha compiuto gli anni Canale 5, la rete ammiraglia del gruppo Fininvest, oggi Mediaset. E sono 40: la prima trasmissione di rilievo fu il “Mundialito”, ma il piccolo canale già schierava in scuderia il re della tv, sua maestà Mike Bongiorno, convinto dalla pecunia berlusconiana a traslare la sua corte dai prestigiosi studi in Fiera a quelli artigianali di Segrate, che sarebbe un po’ come dire oggi ‘vendo la villa alle Fiji e mi faccio un mese alla pensione Cosetta Rosa di Casalborsetti’.

Di lì a poco seguirono il re dei telequiz nelle brume dell’hinterland milanese anche Loretta Goggi, Corrado e Sandra e Raimondo, poco più avanti negli anni Raffaella Carrà e Pippo Baudo, questi ultimi – in verità – con scarsa fortuna pur se collocati in programmi miliardari, come i loro ingaggi.

Privo della possibilità di andare in diretta e dunque escluso fino ai primi anni ’90 dalla possibilità di avere un proprio telegiornale competitivo (il TG5 partirà solo nel gennaio 1992 guidato – anche in conduzione, novità assoluta per l’Italia – da un altro figlio di mamma Rai: Enrico Mentana), il canale berlusconiano è stato un protagonista degli anni ’80 importando in Italia il modello della tv commerciale americana e influenzando così in profondità il costume del Belpaese. La partenza è a razzo: per la prima volta si esplorano fasce orarie prima neglette, come la mattina, “il regno delle casalinghe” che fanno la spesa, teste preziose come pepite d’oro nel Klondike.

Ecco quindi comparire in palinsesto format che negli States furoreggiavano fin dagli anni ’50 come “OK il prezzo è giusto”, “Il gioco delle coppie”, “Il gioco dei nove”, “La ruota della Fortuna”: acquistati a poco prezzo, sono di sicura resa, e vengono affiancati da una serie di prodotti di creazione nostrana, sempre variando sul tema del quiz o del gioco a premi, come “Bis”, “Il pranzo è servito”, “Zig Zag”. Seguirono poi i primi tentativi di varietà in grande stile, alla metà del decennio: dopo “Premiatissima” con Johnny Dorelli – un adattamento in salsa reaganiana del vetusto “Canzonissima”, abbandonato dalla Rai ormai da un decennio – ecco “Grand Hotel” che in spirito ‘cameriniano’ riuniva su di un unico set un ricco cast artistico (e dietro le quinte, un sontuoso cast autoriale, tra cui Age, Bruno Corbucci, Enrico Vaime solo per dirne tre) con l’intento dichiarato di rosicchiare audience alla corazzata “Fantastico”, che all’epoca era nientemeno che quello dei record di Adriano Celentano.

In quegli anni a Berlusconi non manca la prometeica ambizione di sfidare la Rai sul suo stesso terreno: grandi show, ma anche grandi sceneggiati comprati con occhio lungo in America e che rivoluzionano il gusto italiano. Il pubblico fino ai primi anni ’80 per cambiare canale si doveva alzare dalla poltrona e forse per pigrizia, sembrava ancora appagato dagli ampollosi sceneggiati pedagogici come “Cuore” o “Marco Polo” proposti dal primo canale: su Canale 5 invece “Dinasty”, “Dallas”, “Uccelli di Rovo” e “Beautiful” scuotono gli italiani, che da essere quelli “degli spaghetti al dente/e un partigiano come presidente”, si appassionano subitaneamente delle torbide vicende famigliari dipanate tra i pozzi di petrolio del Texas e le sontuose magioni di Beverly Hills. Una precognizione trumpiana, potremmo dire, col senno di poi.

Il valore di Canale 5 si misura anche nelle occasioni che dà a molti di sperimentare e crescere nel ramo televisivo: basti pensare alla grande fucina di talenti rappresentata dallo spettacolo comico “Drive In”, il vero simulacro dell’american dream all’amatriciana: uno spettacolo di cabaret ambientato in un locale all’aperto anni ’50, in cui lo spettatore era tempestato di battute/tormentoni quanto di marchi pubblicitari, in un diabolico corto circuito logico in cui gli stessi comici del programma parodiavano se stessi (il tele-imbonitore Ezio Greggio nella gag della “Asta tosta” o il paninaro Enzo Braschi che prendeva in giro la gioventù che si identificava nel piumino Moncler e negli anfibi Timberland).

Se le star della ‘prima generazione’ della rete erano d’importazione Rai, non lo stesso si può dire delle maestranze, praticamente tutte formate da zero e spesso avviate a una carriera di grandi soddisfazioni a livello dirigenziale partendo da ruoli gregari (Giorgio Gori era un garzone di produzione, Adriano Galliani un mago dei cablaggi) mentre davanti alle telecamere si fanno le ossa le future star “sbanca-auditel”, come Marco Columbro, Paolo Bonolis e Gerry Scotti. Canale 5 all’epoca rappresenta insomma il sogno americano per chi la guarda, ma anche per chi ci lavora.

Il 1990 – con la discussa approvazione della Legge Mammì, che consente a Canale5 (e alle altre reti del gruppo, Italia1 e Rete4) la diretta – apre le porte a una situazione di duopolio televisivo pieno e consolidato. Se il primo programma a provare l’ebbrezza della diretta è uno di quelli che non ne avrebbe bisogno, “Non è la Rai” di Gianni Boncompagni (ennesimo fuoriuscito Rai), il resto della programmazione è seriamente in conflitto con la tv di Stato e comincia spesso a farle male.

Oltre al TG arriva sugli schermi del Biscione il calcio, gli show del sabato come il Bagaglino di Pingitore e quelli del giorno festivo (con le interminabili “Buona domenica” gestite prima dalla Cuccarini con Columbro, poi da Scotti e infine da Costanzo e gli show del cuore come “Stranamore” di Alberto Castagna). Intanto prosegue l’erosione del pubblico di seconda serata con il “Maurizio Costanzo Show” e dell’access prime time, con “Striscia la Notizia” e “Passaparola”, la fascia pre-prandiale con “Forum” e post-prandiale con “Cari genitori” e “Agenzia Matrimoniale”. Sempre lungo si mantiene l’occhio oltreoceano, da cui i dirigenti di Cologno Monzese pescano assi come l’epocale “I Misteri di Twin Peaks” di David Linch, che entra nell’immaginario collettivo del 1991 con la forza di un tornado.

Al giro di boa del nuovo millennio, scoppia la guerra dei “format”: quel che fino agli anni ’90 era praticamente solo il talento di un qualsiasi dirigente furbo e dall’inglese fluente, che intercettava un format internazionale e lo adattava da noi, dagli anni 2000 diventa un’industria mondiale, non necessariamente di casa in America; Canale 5 è la prima (ancora una volta) nel varare un genere nuovo e destinato a gran fortuna: il reality. Piaccia o non piaccia, il “Grande Fratello” rivoluziona il costume e segna una linea che ancora oggi – a vent’anni di distanza e con una rivoluzione digitale di mezzo – è seguita con rimarchevole successo (lo spin off “VIP” è in onda due volte alla settimana, con share record), aprendo la strada a una sequela infinita di epigoni in salsa musicale e artistica, i cosiddetti “talent show”, di cui un’eccellenza nostrana, da subito ospitata a Canale 5, è “Amici”, l’accademia di spettacolo di Maria de Filippi ispirata al musical “Fame”.

Con l’affilarsi di artigli della concorrenza satellitare e l’avvento di internet, che rosicchiano ascolti e investimenti pubblicitari e cambiano le abitudini di fruizione delle nuove generazioni, Canale 5 nell’ultimo quindicennio decide di rischiare sempre meno: ecco allora il replicarsi incontrollato dei medesimi volti su tanti programmi più o meno rodati: la De Filippi con i suoi tronisti, le storie di sentimenti strappalacrime in “C’è Posta per te”, il talent “Tu si que vales”, Barbara d’Urso con il suo infotainment a getto continuo (“da mattina a sera, feriali e festivi, isole comprese” avrebbe detto il mitico Guido Angeli, uno dei faccioni iconici della pubblicità anni ’80… provare per credere!), l’eterno e immutabile “Striscia la notizia”, il quizzone milionario con Gerry Scotti e pochissimo altro. E siamo ai giorni nostri: ‘adda passà a pandemia… poi si vedrà.

Intanto però sono trascorsi quarant’anni: siamo passati da Rino Gaetano a Sfera Ebbasta, da Giulio Andreotti a Luigi Di Maio, da Dino Zoff a Gigio Donnarumma, da Donna Letizia a Chiara Ferragni… quante cose sono cambiate! Ma ce n’è una e una sola che non cambia, nemmeno la rete che lo trasmette, Canale 5 non ha mai avuto e non avrà forse mai: il Festival di Sanremo.

È proprio vero: siamo un popolo di Santi, poeti e navigatori (dell’etere).

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