Ci accingiamo a celebrare il 67° anniversario della Liberazione del nostro Paese dal nazifascismo nel pieno di una gravissima crisi economica, sociale ideale e morale. Purtroppo anche questa volta nonostante le buone intenzioni del presidente Napolitano, il 25 Aprile non sarà la festa della liberazione di tutti gli italiani, come in genere avviene per lo più negli altri paesi che hanno combattuto il nazifascismo. Del resto le prime avvisaglie di quelle che saranno le future contrapposizioni le abbiamo avute recentemente in occasione della scomparsa del partigiano Rosario Bentivegna, l’attentatore di via Rasella, a Roma. Quell’attacco partigiano fu un legittimo atto di guerra contro l’esercito occupante della dittatura nazifascista, com’è stato del resto stabilito in ogni grado di giudizio dei nostri tribunali. Al capo partigiano nel momento della morte, sono stati tributati gli onori dovuti a un uomo che ha combattuto per restituire dignità alla sua patria e riportare i valori della civiltà al suo popolo. “Bentivegna – ha ricordato il presidente Napolitano – fu protagonista di una delle azioni gappiste più audaci e dure contro l’occupazione tedesca di Roma. Sempre ne difese appassionatamente le ragioni nel vivo delle polemiche e delle contestazioni che si succedettero. Resta indiscutibile il valore ideale del suo coraggioso apporto alla liberazione della capitale e del paese dalla tirannia nazifascista”.
Ma, come era prevedibile, nostalgici fascisti, mai pentiti e revisionisti a vario titolo hanno approfittato dell’occasione per manifestare un’ennesima volta il loro disprezzo per l’antifascismo, la Resistenza e la Costituzione repubblicana. “Dopo tante strumentalizzazioni e speculazioni sarebbe ora di ragionare in termini diversi”, ha detto il presidente dell’Anpi, il senatore Carlo Smuraglia. “Certi atteggiamenti non fanno onore a chi li tiene perché non è solo questione di rispetto per chi muore, ma anche per chi ha dedicato la vita alla libertà degli altri. Purtroppo c’è ancora chi non accetta la Resistenza, e sono le stesse persone che parlano spesso di memoria condivisa e di pacificazione. Eppure credo che in un paese civile sia necessario una specie di patto storico comune sulle vicende fondamentali come il Risorgimento, la Resistenza e la Costituzione. Per questo un paese come l’Italia deve saper fare i conti col proprio passato e ricordare la sua storia più importante, invece si continua a sentire di negazionismi e revisionismi”.
Le polemiche divampate durante la commemorazione di Bentivegna ci parlano ancora di ferite che dopo tanti anni non sono ancora chiuse. Con il risultato che “il 25 Aprile – dice lo storico Carlo Oliva – anziché essere una data di inizio, nella coscienza collettiva degli italiani si è trasformato in una data conclusiva, in un ‘punto e a capo’ che ha lasciato irrisolti i ‘nodi’ della storia passata stretti fra opposte vulgate”.
È un bene che sia così e che molti italiani non si riconoscano in questa data, che è quella poi fondativa della nostra Carta costituzionale? E perché avviene ancora questo da noi? È possibile a 67 anni dalla Liberazione dal nazifascismo sciogliere questi nodi, demistificare queste ‘opposte vulgate’, promuovendo, come dice Smuraglia, “una specie di patto storico comune sulle vicende fondamentali come il Risorgimento, la Resistenza e la Costituzione?”
Che cosa si potrà fare per rendere la ‘giornata del 25 aprile’ un’occasione di concordia nazionale, dove tutti possano ritrovarsi e riconoscersi?
Cominciamo con il dire che non è una buona cosa che questa data sia occasione di riproposizione di steccati e polemiche sterili. La divisione e la contrapposizione sono state portate avanti, dal dopoguerra a oggi tra fascisti e antifascisti, tra comunisti e no, strumentalmente agitate dalla destra e dai nostalgici mussoliniani, ma anche maldestramente da un certa sinistra “radical-schic”, che non si rende conto che così facendo si alimentano gli steccati agevolando la politica dello scontro e delle divisioni, sempre cara alla destra antidemocratica.
Non a caso Berlusconi ha mantenuto specularmene e sconsideratamente vive le divisioni, nel corso del suo ventennio, a mio giudizio per fini puramente personali. Tutto ciò è stato un male che ha ritardato lo sviluppo economico sociale e democratico del nostro paese. A oltre mezzo secolo di distanza è ormai convinzione comune che occorra un ripensamento della Resistenza, sulla quale tutti mostriamo troppo facili certezze. E ciò anche perché come dice Guido Guazza: “I venti mesi della Resistenza sono stati troppi per i lutti e il sangue che hanno provocato, ma, nello stesso tempo sono stati troppo pochi per il rinnovamento di cui il Paese aveva bisogno”.
Si tratta, soprattutto, di riconoscere ai tragici avvenimenti del 1943-1945 la loro dignità di grandi eventi storici, sottraendoli ai ricorrenti rischi della retorica celebrativa o alle strumentalizzazioni di parte spesso riduttive e liquidatorie. Quindi è con questo spirito che bisogna muoversi nel 67° anniversario della guerra patriottica che ha ridato la libertà a tutto il popolo italiano, se si vogliono comprendere i motivi che stanno alla base delle resistenze ad accettare una giusta forma di memoria condivisa in Italia. È necessario che da sinistra e da destra si sciolgano definitivamente i nodi rimasti e si faccia giustizia dei tanti luoghi comuni, che sono ancora causa di divisioni.
Quali sono questi nodi? Innanzitutto i conti non fatti con il nostro passato; la cosiddetta questione della ‘guerra civile’; l’equiparazione dei repubblichini con i partigiani, la pacificazione…
Andiamo con ordine. La causa principale all’origine di queste divisioni è certamente quella del ‘passato che non passa’, cioè dei conti non fatti con il proprio passato. Questa questione com’è noto è stata affrontata in Germania, ma non in Italia, dove subito all’indomani dall’8 settembre si è cercato di far passare quel fenomeno, tutto italiano, che il professor Emilio Gentile, l’ allievo di Renzo De Felice, storico non passibile di partigianeria storiografica, ha definito “defascistizzazione del fascismo”. In Italia vi è stato lo svuotamento del regime dei suoi tratti liberticidi e la negazione del suo carattere totalitario. Non avere chiuso con il nostro passato ha fatto sì che si accumulassero steccati, luoghi comuni, strumentalizzazioni ideologiche e propagandistiche, stereotipi e miti che tendono a minimizzare le colpe della dittatura fascista, a negare l’Olocausto con lo sterminio di milioni di vite umane, a delegittimare la Resistenza e le basi stesse della convivenza democratica, a mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti, equiparando i combattenti della Rsi ai partigiani.
Questo da destra. Ma da sinistra, da parte dei dirigenti del Pci, per lungo tempo si è indugiato nell’attribuire alla lotta di liberazione un carattere di massa che non ha avuto. Ne sa qualcosa lo storico Claudio Pavone che nel 1985, molto tempo prima della pubblicazione della sua opera: “Una guerra civile”, parlando in un convegno a Brescia, per la prima volta, a proposito del 1943-45 in Italia di ‘guerra civile’ si attirò la reazione sdegnata di Giancarlo Pajetta, esponente di punta del Pci, presente ai lavori. “Ricordo – dice Pavone in una intervista rilasciata il 23 ottobre 2008 – che parlando della lotta fra la Resistenza e la Rsi come guerra civile ne ebbi una terribile lavata di capo da parte di Giancarlo Pajetta che intervenne dicendo risolutamente che non era vero, che quella era stata una guerra di liberazione nazionale, una guerra di tutto il popolo italiano”.
Il tentativo di applicare alla lotta fra la Resistenza e la Rsi il concetto di guerra civile ha incontrato l’ opposizione non solo dei protagonisti, ma quella di tutta la variegata sinistra. Ciò però non va attribuito solo a una retorica celebrativa ed agiografica della Resistenza, da parte dei partigiani e delle forze politiche e del Pci in particolare e ai ritardi storiografici da parte di storici di sinistra, ma anche, e bisogna ribadirlo, per un’ ovvia reazione all’uso strumentale che è stato fatto da parte fascista del concetto di “guerra civile”.
Questa categoria era cara alla pubblicistica neofascista che ha sempre utilizzato, ma a torto, questo concetto come strumento per fare passare una equiparazione tra partigiani e repubblichini. “Ora – dice Pavone – sembrano dire: ‘ecco, lo dice Pavone, un partigiano uno di loro, e quindi vuol dire che noi avevamo ragione e le due parti erano uguali”.
Una guerra civile ha dato luogo a opposizioni di questo genere, nonostante fosse chiaro che Pavone non ha interpretato la Resistenza solo come guerra civile, ma anche come guerra civile, e non solo. Tanto, ed è bene ricordarlo, che lo storico nel suo saggio distingue e parla di tre aspetti della guerra: la guerra patriottica, la guerra civile e la guerra di classe – tre guerre che sono spesso combattute dallo stesso soggetto – introducendo così una novità interpretativa in grado di cogliere tutte le sfumature e di attraversare orizzontalmente una realtà storica di estrema complessità per quei tempi.
È giusto pacificare? A distanza di oltre sessant’anni, significa superare le contrapposizioni, riconoscere reciprocamente la dignità di una scelta ideale e identificarsi nella nuova cittadinanza democratica che da quell’esperienza è derivata. “Però come spesso accade nel nostro paese – ricorda lo storico Gianni Oliva ne “Le tre Italie del 1943” (Mondadori) – quando si affrontano i temi legati al periodo fondante della storia repubblicana e democratica, gli spunti innovativi sono stati presto oggetto di strumentalizzazioni e polemiche”. Da più parti il tema della pacificazione è stato trasformato in quello dell’equiparazione dei combattenti ed è stato prospettato un superamento delle divisioni che rappresentasse, nel contempo, un azzeramento del passato, o quanto meno un ridimensionamento del suo significato fondante.
La condizione per una pacificazione che non faccia torto al passato è il mantenimento della distinzione tra il piano individuale e quello collettivo. La categoria della buona fede ha carattere essenzialmente etico e come tale va applicata alla biografia degli individui: in questo senso, è corretto sostenere che la maggior parte di coloro che si sono schierati volontariamente nelle file della Rsi hanno agito nella convinzione di difendere in quel modo gli ideali ai quali erano stati educati dalla scuola del Ventennio (altro discorso va naturalmente fatto a proposito di coloro che hanno semplicemente risposto alla chiamata di leva, per i quali prevale l’accettazione passiva di un ordine imposto dal nuovo quadro istituzionale della Rsi).
Quando però si traccia la biografia di un popolo, cioè quando si fa “storia”, la buona fede delle scelte individuali non ha ragion d’essere, pena l’assoluzione a priori di qualsiasi atteggiamento e di qualsiasi schieramento. Quando si ricostruisce il passato, dunque, non è ai percorsi individuali che bisogna guardare, ma ai progetti per i quali gli individui si sono schierati e si sono battuti: è il progetto a rappresentare una prospettiva per il futuro oppure una minaccia, un’ipotesi di progresso oppure una regressione, una speranza o una paura.
A una vulgata antifascista più o meno ufficiale, che ha limitato l’interpretazione del regime al suo carattere repressivo e ha sovradimensionato il ruolo degli oppositori, si sta contrapponendo da alcuni anni una vulgata di segno ideologico opposto, che tende a ridurre l’antifascismo a una manifestazione del tutto marginale e a sottostimare il carattere totalitario del regime. Riconoscere limiti quantitativi e ideologici non può tuttavia portare a misconoscere l’esistenza di un’opposizione antifascista, né a liquidarne l’esperienza come puramente marginale, come sostengono alcuni opinionisti. Questi pseudostorici chiedono l’abbandono dell’antifascismo come riferimento ideale, come fondamento della legittimazione-costituzionale. A loro avviso ciò potrebbe consentire il recupero di un’idea civico-democratica di nazione. Questa tesi è contestata da molti studiosi seri perché ignora che l’antifascismo, come affermazione dei valori di libertà e di eguaglianza propri di uno Stato democratico, è stato – come sostiene tra l’altro il professor Emilio Gentile – un momento fondamentale della riunificazione delle diverse correnti politiche antifasciste intorno ai valori della patria, della nazione, dello Stato nazionale, costituendo anche la componente essenziale dell’origine della Repubblica italiana.
“Sotto questo profilo, nel 1943-45 in Italia, – dice Oliva – si sono fronteggiati tre progetti diversi. Il primo era il pro-getto fascista, che significava continuità con la guerra, con il nazionalismo, con l’alleanza con la Germania di Hitler: bisogna chiedersi che cosa sarebbero state l’Italia e l’Europa se quel progetto avesse trionfato, a quali razze sarebbe stato riconosciuto il diritto di cittadinanza, quale organizzazione della vita individuale e collettiva sarebbe stata imposta. Il secondo era il progetto dell’antifascismo di matrice comunista, che si poneva in termini di rottura rispetto al passato e guardava come prospettiva al modello sociale e politico dell’Unione Sovietica. Il terzo era il progetto dell’antifascismo democratico, che dalla rottura con il passato totalitario traeva l’indicazione per un percorso di rifondazione nazionale che sarebbe approdato alla Costituzione del 1948. Su questi progetti il giudizio è stato espresso dai sessant’anni di storia successiva: è ad esso che deve guardare l’interpretazione del passato da proporre alle nuove generazioni; ed è solo sul riconoscimento del valore della democrazia repubblicana che può fondarsi un percorso credibile di pacificazione”.
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