In questi giorni si sono concluse le elezioni per il nuovo presidente degli Stati Uniti. Per la verità, le operazioni di spoglio delle schede non sono ancora terminate completamente e si parla (anche lì) di brogli, di tempi lunghi e non se ne verrà fuori prima di alcuni mesi. Almeno, così pare. Al contempo, si incominciano a leggere i commenti. Il più gettonato, ovviamente, riguarda la sconfitta di Trump. Si dice che la conseguenza di quella sconfitta sarà la fine del trumpismo e, con lui, di tutta quell’ideologia che va sotto il nome di populismo-sovranismo. E poi, si va addirittura oltre. Si dice anche che quest’evento avrà conseguenze analoghe da noi e sarà la sconfitta di quello stesso sovranismo-populismo che rappresenta una considerevole fetta d’elettorato. Magnum cum gaudio.
Ma paiono letture affrettate, sbrigative, mosse dal desiderio di rassicurare piuttosto che dettate dal lume della ragione, per provare ad allontanare, per un momento, i fantasmi di una situazione come quella italiana in cui non si vede più la luce, immersi come siamo in una transizione infinita di contrapposizioni sterili, senza più sapere che pesci prendere. Ma son rassicurazioni che servono a poco e lasciano il tempo che trovano. Perché, la situazione in cui versiamo, non è una ferita superficiale, non è un’escoriazione. È una frattura profonda, che non si rimargina e si manifesta attraverso una separazione netta tra politica e corpo sociale da una parte e istituzioni dall’altra. È in questa separazione che trova alimento il populismo. Una frattura emersa nettamente dalle ultime elezioni (4 marzo 2018), quando la critica radicale alle forze politiche tradizionali e il voto di protesta sono arrivate a rappresentare più della metà dei votanti (5S e Lega), mentre generalmente questo tipo di dissenso non supera un quarto del quorum.
Dunque, provare a rassicurare serve a poco. Bisogna capire quel che accade, senza cercar di nascondere la polvere sotto il tappeto. Forse, ci sono segnali che aiutano a trovare la strada. Forse, basta riflettere su questo clima di rabbia che corre, per ora sotto traccia, e che si manifesta in vari modi contro tutto. Contro i vaccini. Contro i partiti. Contro la scienza. Contro lo straniero. Contro i neri. Contro l’Europa. E altro ancora. Perché siamo contro? Il fatto è che non ci sentiamo rappresentati, abbiamo paura e una parte di noi questa paura la trasforma in risposte irrazionali. La più semplice e più immediata è quella di essere contro, com’è sempre accaduto. Il populismo, stando a quel che si dice in letteratura, ha origine proprio negli Stati Uniti, da quel fenomeno che fu il People’s Party di fine Ottocento, nato dalla protesta di piccoli agricoltori proprietari terrieri “per opporsi a banche, ferrovie, grossisti del grano e modernità urbana”. Niente di meno.
Altre volte dal negazionismo non è nato alcun movimento, ma qualcuno come Marx Planck, premio Nobel per la fisica, nel 1933 seppe interpretare le inquietudini del suo tempo come il segnale di un mutamento profondo e cupo della società, prima che finissimo nel più doloroso conflitto di sempre “Stiamo vivendo in un momento davvero singolare della storia. È un momento di crisi nel senso letterale. In ogni campo della nostra civiltà spirituale e materiale ci sembra di essere giunti ad una svolta critica. Questa sensazione si manifesta non solo nello stato effettivo degli affari pubblici, ma anche nell’attitudine generale verso valori fondamentali della vita personale e sociale […] Ormai gli iconoclasti hanno invaso il tempio della scienza. Non c’è qualche assioma scientifico che non sia oggidì negato da qualcuno. E nello stesso tempo quasi ogni assurda teoria può quasi certamente trovare seguaci e discepoli da qualche parte”.
Ecco, se dovessi dare un consiglio non richiesto a proposito della nascita di un nuovo partito politico, come quell’“Insieme”, per esempio, di cui si parla spesso in questi giorni, direi di evitare il rito delle disquisizioni per sapere “chi sta con chi”. Non interessa a nessuno sapere delle coalizioni, se non a quel ceto politico ormai distante chilometri dalla realtà. Il trumpismo-popolar-sovranista sta per conto suo e sa mettere in scena a meraviglia il disagio, col ghigno della rabbia. Per fermar davvero tanta indecenza, bisogna andare oltre e provare a interpretare quel disagio con le ragioni dello stare insieme. Col lavoro, l’impegno, il senso di responsabilità e con analisi nette, senza pensare neanche per un momento che questa brutta storia sia finita così. La gente non è né sovranista né populista. Non sa neanche bene che cosa voglion dire certe parole, anche perché, in fin dei conti, non lo sanno neppure gli addetti ai lavori (basta leggere le disquisizioni sulla definizione del termine che si rincorrono da anni, senza che sia stata trovata una sintesi condivisa). Spera solo nel miglior cambiamento possibile. Perché avvenga, va ricomposta quella frattura, incominciando a dare delle risposte vere a problemi veri (ma questo è un altro discorso).
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