Un amico imprenditore, mio grande maestro di vita, anni fa ironizzava sui modelli di apprendimento che andavano diffondendosi tra le persone: “Sa fann cusè? A vann su Google!”. Negli attuali scenari, la tentazione di digitare “management delle pandemie” è forte e qualcosa salterebbe certamente fuori. Ma il valore aggiunto sarebbe modesto. Che mi risulti, le grandi business school americane non hanno mai avuto dei corsi dedicati… chi mai li avrebbe frequentati? Soprattutto, sulla base di quali riferimenti si sarebbero prodotti i contenuti da illustrare nelle aule? Per dirla alla Alpitour: no epidemia, no ricerca, no formazione! Il dato storico è che istituzioni, imprese, aziende sanitarie, banche stanno imparando col fare, sperimentando, attuando, facendo errori, in un contesto ambientale mai vissuto in passato. Che poi ci sia qualcuno più bravo e qualcuno meno bravo nel farlo è un altro paio di maniche.
Ciò premesso, volenti o nolenti, dobbiamo guardare avanti, facendo tesoro delle parole di Churchill: “If we open a quarrel between past and present, we shall find that we have lost the future”.
Sul ruolo dei manager nell’era del post Covid si sta discutendo intensamente, ed è giusto così. Di buon management ce ne sarà bisogno (in verità, non è che in passato non ce ne fosse) e il confronto è una grande ricchezza. To do list: prodotti da reinventare, consumatori da riconquistare, processi produttivi da efficientare, partnership da ripensare nei modi e nei luoghi. Senza perdere di vista una dimensione fondamentale del “mestiere di dirigere”: la leadership.
Ipotizziamo un deus ex machina che incorpori doti di decision making in condizioni di incertezza, abilità di manovra degli obiettivi, capacità di data management, resistenza allo stress, … e chi più ne ha, più ne metta. Quandanche esista, il Faust del management non potrà prescindere da un contesto organizzativo da ristrutturare e da mobilitare.
Marchionne diceva che “un grande leader è capace di guidare il cambiamento, fissare degli obiettivi incredibilmente audaci, circondarsi delle persone migliori che si possano trovare, e farle lavorare”. Nei fatti, come si declinerà in futuro il “si circonda”? E il “farle lavorare?” Si tratterà di sostituire dei collaboratori? Di adottare nuovi modelli di valutazione della produttività? Di progettare ex novo un equilibrio tra lavoro in presenza e a distanza? E, alla fin fine, chi sarà il “grande leader”?
Serviranno manager carismatici, abituati a stare con le persone, a toccare le corde motivazionali, a contrastare le resistenze al cambiamento.
Serviranno manager con la schiena dritta, allenati a chiamare pane il pane e vino il vino, a generare fiducia e consenso attorno a ciò che veramente conta: il bene dell’azienda e dell’istituzione di cui si è alla guida. Sfide di non poco conto, in un Paese in cui posizioni di rendita, nepotismi e tutele mettono all’angolo la meritocrazia non appena si presenta l’occasione. Cioè spesso.
Serviranno manager navigati nelle relazioni esterne, in grado di interagire con gli stakeholders. La proprietà, partendo dal presupposto che il gioco “contributi attesi-ricompense offerte” non potrà certo essere quello del passato. E poi l’ecosistema: banche, sindacati, rappresentanza, enti territoriali, policy makers …… Un esempio su tutti: i rapporti con la pubblica amministrazione. Max Weber, più di un secolo fa, scriveva che “ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni”. In Italia, ormai da decenni, imprenditori e manager disegnano i processi in funzione dei vincoli burocratici prima che delle opportunità di business, che è tutto dire. Perché mai la situazione dovrebbe migliorare in futuro?
Per i bravi manager, sempre meno onori? E sempre più oneri? Quasi certo, soprattutto se non si vuole lasciare campo libero alla mediocrità imperante. Il buon management è una cosa seria, è una gara di competenze, è un esercizio di trade off. Ha tempi e metodi da semina e raccolto, l’esatto opposto dei tweet.
Per concludere. Martin Luther King diceva: “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”. Che il “mestiere di dirigere” tenda a coincidere con il “mestiere di cambiare”? Se fosse, come si comporteranno i tanti seguaci di Tomasi di Lampedusa seduti su poltrone che contano? Ai posteri, tempo permettendo (!?), la sentenza.
Federico Visconti, rettore della Liuc-Università Cattaneo
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