Leggetele con attenzione e con rispetto queste cinque lettere, semplici, intense e assieme drammatiche di chi andava alla morte per la libertà, voi che vorreste gettare il tricolore nel cesso, voi fascio-nazistelli che popolate i margini della vita anche politica del Paese, voi evasori fiscali che fate vivere peggio chi le tasse le paga regolarmente, voi criminali delle varie cosche, “colletti bianchi” compresi, voi “sepolcri imbiancati” e “doppiogiochisti” pronti a servire il potente di turno, voi che dissipate il denaro pubblico, voi screditati cittadini bollati dal Presidente della Repubblica come indegni di essere accomunati alla parola Italia, voi nemici giurati della democrazia e della libertà. Ma anche voi che avete le mani pulite, colpiti in questi anni da una intollerabile, e forse, inguaribile amnesia.
L’autentico significato del 25 aprile 1945, di quel lontano tiepido mercoledì di primavera, il giorno della speranza, in cui il feroce fascismo di Salò venne abbattuto assieme all’alleato nazista, si trova scolpito col sangue nelle parole che accompagnano gli estremi messaggi dei tanti anonimi “padri della Patria” più che nei discorsi, spesso retorici, che le “autorità” al termine di sempre più sparuti cortei con militari e scolaretti al seguito, fanno, senza lasciare un qualsiasi segno di riconoscimento.
Capirete allora perché la data è importante, perché la dobbiamo sentire come inchiodata nel profondo dell’anima, richiamando, nelle quotidiane scelte di vita che compiamo, i valori che essa propone.
Avvertirete purtroppo anche il contrario, e questo spiega in parte la condizione civica in cui versa la comunità nazionale, l’attacco che a quella storica irripetibile giornata viene regolarmente portato, la reiterata dissacrazione storiografica, le vergognose iniziative di intestare a questo o quel ex gerarca piazze, strade, monumenti, targhe. Ma in quale parte del mondo è consentita questa indecente provocazione?
Varese, pochi mesi fa, non è stata da meno con il suo solido “zoccolo nero” che da sempre si porta appresso: mesi fa è stato eretto in “Città Studi”, senza il rossore della vergogna, presentando (silenti il preside e gli insegnanti, non gli studenti) l’iniziativa nell’aula del Liceo Classico “Ernesto Cairoli” intitolata al docente ebreo professor Pio Foa gassato ad Auschwitz coi suoi due figli, un cippo a Giovanni Gentile, intellettuale fascista e repubblichino.
Ascoltate allora, per turbarvi un po’, le voci di chi ci ha “regalato la” democrazia, di chi per averla, ci ha rimesso la vita.
Il 25 aprile fu la loro meta.
Giordano Cavestro “Mirko”, studente di scuola media, diciotto anni, di Parma. Partigiano. Catturato il 7 aprile 1944 durante un rastrellamento. Processato il 14 aprile, condannato a morte, fucilato con quattro compagni di lotta il 4 maggio a Bardi.
Ha lasciato agli amici di lotta questo breve messaggio:
“Cari compagni,
ora tocca a noi. Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia. Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.
La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande farò della Libertà.
Giordano”.
Amerigo Duò, 21 anni, meccanico di Villanova Maltesana, Rovigo. Partigiano in Piemonte. Sorpreso il 17 gennaio 1945 nei pressi della Stazione di Porta Nuova di Torino nel corso di una riunione politica venne condannato a venticinque anni, pena commutata in quella della fucilazione per il fiero comportamento tenuto in Tribunale in difesa del suo comandante “Pedro” Ferreira. Rifiutò di presentare la grazia. Fucilato il 23 gennaio l945 al Poligono del Martinetto di Torino con altri dieci compagni.
Il suo generoso pensiero prima di cadere sotto il fuoco della GNR:
“Amici cari del Partito d’Azione, il mio ultimo desiderio che vi esprimo è di farvi coraggio e di non piangere; se voi mi vedeste in questo momento sembra che io vada ad uno sposalizio, dunque su coraggio, combattete per un’idea sola, Italia libera. Ricordate che io non muoio da delinquente ma da Patriota, io muoio per la Patria e per il benessere di tutti, dunque chi si sente continui la mia lotta, la lotta per la comunità.
Per gli amici che sono stati con me in montagna, un caro augurio. Fatevi tutti coraggio. Io sono stato condannato alla fucilazione alla schiena per appartenenza a bande armate cittadine ma non hanno avuto alcuna prova contro di me.
Mi raccomando a voi, fate molto coraggio a miei genitori e statele vicino che ne avranno molto bisogno.
Un caro abbraccio a tutti.
Coraggio! Viva l’Italia libera!
Duò Amerigo”.
Guglielmo Jervis “Willy”, quarantadue anni, di Napoli, ingegnere alla “Olivetti” di Ivrea. Partigiano di “G.L.”. Arrestato dalle SS nel marzo 1944. Più volte seviziato. Fucilato nella notte fra il 5 e il 6 agosto 1944 dai tedeschi nella piazza principale di Torre Pellice. Il suo cadavere venne poi impiccato. Medaglia d’oro al Valor Militare.
Scrisse queste parole con la punta di uno spillo sulla copertina di una Bibbia ritrovata nei pressi del luogo ove morì:
“Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea”.
Alessandro Teagno “Luciano Lupi”, ventitre anni, torinese, perito agronomo. Partigiano, catturato due volte ed evaso, ripreso il 15 febbraio 1945 per la terza volta e fucilato il 3 marzo al Poligono del Martinetto dalla GNR, con il compagno Matteo De Bona.
Alla madre, poche ore prima della morte:
“Carissima mamma,
sono stato condannato alla pena capitale dal Tribunale Militare di Guerra.
Muoio contento per la mia Patria che ho amato tanto e per l’idea di una futura giustizia e libertà del Paese.
Lascio il mondo assistito dai conforti religiosi, tranquillo, sorridendo. Abbi fede anche tu in Dio. Io non l’ho avuta per lungo tempo. Ma ora ho la certezza che una Giustizia Suprema deve esistere! Ci rivedremo in Cielo. Ti aspetterò lassù. Vi aspetto tutti (…).
Nino”.
Ivo Lambruschi, 22 anni, contadino di Campegine, Reggio Emilia. Partigiano. Arrestato il 16 agosto 1944. Fucilato il 22 agosto 1944 dai tedeschi.
Due giorni prima della morte si rivolse alla mamma:
“Mamma,
se mi vuoi bene non piangere, cerca di scordare le pene. Il tuo Ivo vive ancora prigioniero ma aspetta con ansia la libertà per poterti riabbracciare come un tempo. Ma se il destino purtroppo con me sarà cattivo: e se non ti dovessi assicurare il mio ritorno, non piangere.
Ti ripeto perché il tuo figlio è morto per la sua causa, “per la Santa causa Italiana”.
Ivo Lambruschi”.
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