Il senso di appartenenza e di identità dei varesini per la loro “città giardino” non ha impedito la distruzione di molti parchi urbani e di innumerevoli ville “liberty” che fino a mezzo secolo fa caratterizzavano la unicità di Varese. Neppure ora, con una amministrazione che si qualifica per la sua dichiarata volontà di difendere le caratteristiche locali, il fattore ambiente sembra avere un particolare rilievo nella elaborazione del previsto Piano di Governo del Territorio. Il “localismo” resta confinato agli edifici ma è indifferente al consumo del nostro territorio, tra i più belli delle Prealpi.
La situazione è diversa all’estero dove la preoccupazione per l’espansione urbana che mette a rischio il territorio e il paesaggio è presente da molto tempo; fin dal 1898 (assai dopo l’esperienza “spontanea” di Varese) si sviluppò in Inghilterra il movimento delle città giardino promosso dall’architetto Ebenezer Howard, seguito di li a poco dal progetto americano di Frank Lloyd Wright, denominato “Broadacre City”.
I due progetti, prevedendo schiere di case singole con piccoli giardini, non hanno avuto grande fortuna perché portano a distese di residenze sparse sul territorio che viene così eccessivamente sfruttato.
La ricerca di una struttura urbana, necessariamente differenziata in relazione alle caratteristiche dei luoghi, è continuata per tutto il Novecento allo scopo di superare il modello prevalente della città di cemento e di asfalto. Non si può dire che gli sforzi abbiano avuto successo, sia a causa dell’esplosione della popolazione mondiale, che per il “divorzio” tra urbanistica e politica, un binomio che fin dai tempi classici aveva accompagnato la storia dell’umanità. L’unico dato acquisito è che la città, sorta con le prime civiltà, se non diventa il luogo di collegamento tra il campo della vita privata e la sfera pubblica va in crisi; la vita associata che ivi si sviluppa costituisce la misura delle condizioni di una civiltà.
La città dispersa in spazi immensi, oltre ad essere difficilmente sostenibile, non consente l’instaurarsi di rapporti personali e di una convivenza differenziata ma pacifica; la distruzione dei legami umani e la struttura delle odierne metropoli sono fenomeni che si condizionano reciprocamente.
L’esigenza di ristabilire l’equilibrio individuale e quella collettiva è la valorizzazione del centro (“The Core of the City”), cioè l’elemento che permette di superare l’aggregato casuale di individui e trasformarlo in una comunità. Nelle civiltà antiche il “cuore” della città era preservato con cura mentre il traffico attuale ha annullato i luoghi pubblici, lo spazio in cui i cittadini possono incontrarsi senza ostacoli e calpesta il legittimo desiderio degli abitanti di partecipare alla vita cittadina.
Alla base dell’urbanistica ci deve essere l’obiettivo di stabilire un equilibrio tra libertà individuale e vincolo collettivo, senza dei quali la vita dei cittadini viene individualizzata e separata. Oggi i cittadini fruiscono di abitazioni di gran lunga più confortevoli che nel passato ma il traffico urbano veicolare limita la loro possibilità di fruizione della città.
Le civiltà del passato sapevano come disporre in modo ottimale i volumi dello spazio (si pensi alla “invenzione” italiana della piazza); oggi queste capacità sono largamente compresse dalla speculazione che vede nella urbanizzazione del territorio una fonte primaria di rendita. La politica dei Comuni è quella di “svendere” il territorio per avere in cambio opere di pubblica utilità ma il saldo è decisamente negativo perché le opere si possono sempre fare e disfare mentre il territorio è un bene irriproducibile. Anche i monumenti vanno salvaguardati perché sono i simboli del passato con i propri ideali e le proprie gesta; sopravvivono all’epoca in cui furono realizzati perché rappresentano un nesso tra l’ieri, l’oggi e il domani, una preziosa eredità per le generazioni future.
La forma di vita che si sta affermando nel mondo è largamente determinata dalla mentalità e dal mondo di pensare delle persone. È necessario l’intervento del potere pubblico per fa sì che i singoli segmenti residenziali siano separati da superfici verdi e collegati con percorsi pedonali; il quartiere residenziale non basta più ed emerge negli abitanti la consapevolezza che la loro vita privata abbisogna di ulteriori rapporti oltre quelli familiari.
Se si vuole ricostruire i rapporti spontanei tra i cittadini è necessario disperdere i conglomerati urbani tipici della “città industriale” dell’Ottocento ma è altrettanto indispensabile contenere ed annullare lo “sprawl urbano”, cioè la dispersione di costruzioni sul territorio. La città deve avere dei confini naturali segnati da una netta distinzione tra la parte costruita e quella destinata a campagna.
L’Inghilterra, a partire dal 1947, applicò la pianificazione urbanistica all’intero Paese e, in particolare, alla “grande Londra” La città venne circondata da una cintura di boschi, foreste e campagne (“green belt”) profonda fino a trenta chilometri oltre la quale sorse una corona di città satelliti, separate ma anche collegate con la grande metropoli.
Di fronte ad una antropizzazione del pianeta sempre più spinta che ha portato metà della popolazione mondiale a concentrarsi nelle metropoli, occorre riprendere con decisione la strada della pianificazione urbanistica per evitare il collasso ecologico. L’uomo moderno è consapevole dell’importanza della città per conservare la civiltà ma deve anche essere cosciente che per sopravvivere la città deve rapportarsi con il rispetto dell’ambiente e del paesaggio come condizione di equilibrio ecologico senza del quale il futuro diventa insostenibile.
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