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Il Mohicano

POST TRUMPISMO

ROCCO CORDI' - 13/11/2020

trumpJoe Biden è il 46° Presidente degli Stati Uniti d’America.

Ha ottenuto quasi 5 milioni di voti in più del suo avversario Donald Trump.

I “grandi elettori”, quelli cioè che il 14 dicembre avranno il potere effettivo di nomina del Presidente, sono 290 per Biden e 214 per Trump.

Partita chiusa? Assolutamente no. Succede infatti che, per la prima volta nella storia degli USA, il Presidente uscente non riconosce la vittoria dell’avversario e pensa di poter rovesciare il risultato affidandosi alle vie legali.

In un Paese profondamente diviso, come si evince anche dall’esito elettorale, è come gettare benzina sul fuoco.

Neppure nel 2000 era successo niente del genere. Allora la sfida era tra il repubblicano George W. Bush e il democratico Al Gore. Quest’ultimo aveva ottenuto mezzo milione di voti popolari in più del suo avversario, ma in Florida si sono dovuti ricontare i voti e solo alla fine di una controversa procedura Bush venne proclamato vincitore con appena 537 voti di scarto. Tanto bastava per conquistare i 25 grandi elettori dello Stato decisivi per diventare Presidente. Ciononostante niente isterie e minacce. Al Gore telefonò al vincitore per congratularsi con lui, come da prassi in tempi normali.

Noi però non viviamo tempi normali. La lunga crisi economica e ora la pandemia mondiale hanno rotto i vecchi equilibri politici e sociali e incrinato gravemente regole e istituzioni democratiche. E se, non solo negli USA, a dominare sono la paura, l’insicurezza, l’angoscia, la rabbia, allora anche la democrazia è a rischio. Soprattutto quando questi stati d’animo vengono strumentalizzati e alimentati dalla politica.

Il trumpismo si è nutrito di questo malessere sociale e lo ha cavalcato cinicamente. Oggi negando la vittoria dell’avversario dà fuoco alle polveri alimentando tra i suoi seguaci risentimento e rabbia contro tutto e tutti: contro i partiti (degli altri), le istituzioni, la democrazia, la cultura, i mass media. Insomma contro tutto ciò che non è uguale a loro.

Trump aveva annunciato la sua vittoria ancor prima dell’apertura delle urne dichiarando che il suo avversario avrebbe potuto vincere solo con i brogli. E così ha continuato nei giorni successivi in un crescendo ossessivo, incurante degli effetti che un simile atteggiamento potrebbe produrre nei settori più estremistici del suo elettorato. O forse lo ha fatto consapevolmente. Perché questa destra vive di contrapposizioni forti, di rotture, ha bisogno del nemico permanente. Che sia il tuo vicino di casa, il diverso, lo straniero, poco importa. Tutto fa brodo.

È difficile prevedere cosa succederà da qui al 20 gennaio quando Joe Biden dovrebbe giurare come 46° Presidente degli Stati Uniti. Una cosa però è certa: qualunque cosa accada ci riguarda da vicino, molto da vicino. Non solo perché da noi i trumpiani non mancano (trumpismo e sovranismo sono tutt’altro che una parentesi) e neppure per gli storici legami atlantici, nel bene e nel male. Ci tocca da vicino perché viviamo una crisi generale i cui effetti nel corpo sociale dei diversi paesi sono molto simili. Ovunque sono la crescita delle disuguaglianze, il dramma della disoccupazione, la perdita di reddito, l’incertezza di futuro a pesare drammaticamente nella vita di ciascuno, forse più di quanto non faccia la paura del virus.

La sfida che attende i democratici USA non è diversa da quella dei democratici europei e, in particolare, della sinistra. Tutte le forze che vogliono rappresentare una alternativa reale al trumpismo e alle destre di ogni specie non possono che partire da qui. Non basta l’allarme per la pericolosità dell’avversario, ormai tardivo e scarsamente avvertito. Né si può pensare di rincorrerli sullo stesso terreno (come si è fatto per anni).

Le “soluzioni” della destra, tanto semplificate quanto inconsistenti, proliferano sul terreno fertile delle paure. Queste sono il prodotto di una globalizzazione senza freni e senza limiti e di una politica sempre più autoreferenziale e condizionata dalle logiche di potere.

A questo punto la crisi può davvero diventare irreversibile e avere sbocchi pericolosi. Perciò bisogna agire, prima che sia troppo tardi, definendo nuove politiche capaci di fornire idee e risposte concrete, rimettendo al centro dell’attenzione e delle scelte i più deboli e tutte le vittime della crisi.

Nei mesi scorsi nella UE si è avvertita una timida inversione di tendenza. La linea rigorista e bilancista è stata accantonata, almeno per ora, destinando agli Stati enormi risorse finanziarie sia per fronteggiare l’emergenza che per stimolare la ripresa economica e una crescita qualitativamente e socialmente più avanzata.

Per tutti è una grande occasione per cambiare rotta. L’uscita di scena di Trump, che sulla divisione dell’Europa e la negazione dei cambiamenti climatici, aveva puntato le sue carte, potrebbe favorire davvero l’avvio di una fase nuova.

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