Sono uomo di questo tempo. Con la saldezza della mente posso considerare i fatti di ogni giorno, ma non so come valutarli. Le parole degli uomini non mi bastano. Sono troppo incerte, contradditorie, menzognere. Manco di bussole e le stelle polari scompaiono inghiottite dalla morte.
Mi sovviene che Dieter Boenhfoeur, il teologo ucciso dai nazisti, ha lasciato scritto che per comprendere i segni dei tempi occorre avere in una mano il giornale e nell’altra il Vangelo. Anche papa Giovanni XXIII, aprendo il grande Concilio, invitava i cristiani a saper interpretare i segni dei tempi al fine di costruire qui in terra una storia da vivere con i suoi travagli quotidiani, le occasioni colte e quelle mancate, gli slanci e i crolli del cuore. Voglio leggere la storia di questi giorni. E vorrei farlo senza avere garanzie, senza informazioni privilegiate, senza scadenze, senza essere ingannato dai grandi mezzi di comunicazione. Ho solo una misura: la Parola di Dio che non parla mai a vanvera, che non tradisce, che non mente. Ci proverò. Dalla tasca della giacca estraggo un libricino, che da anni porto sempre con me. È piccolo, poco spesso, con una rilegatura ormai sgualcita, un segnalibro scarlatto. Lo trovai sul comodino di una camera d’albergo anni fa, in un paesino della Bretagna, e chiesi di averlo.
I giornali mi parlano della pandemia che ci ha rubato perfino l’ultimo addio, di morti, di ricoverati, di contagiati; discorrono dei disordini in piazza; rivelano del virus dell’ipocrisia che ha contagiato la politica; comunicano gli attacchi sanguinosi a Nizza e a Vienna e di chi arringa il suo popolo paragonando l’islamofobia alla shoah; dell’angoscia per i risultati delle elezioni presidenziali in USA e dell’arroganza del presidente uscente che non vuole riconoscerli, annunciano un terremoto a Smirne; raccontano delle deplorevoli accuse tra Stato e regioni.
Sembra che tutto si sommuoverà, che si udiranno grida d’aiuto, che vivremo paure sfrenate. “È la fine del mondo!” diciamo.
Apro il libricino su Marco al capitolo 13, quello che sentiremo proclamare domenica prossima, prima di Avvento del rito ambrosiano. Parla di “rumori di guerre”, di nazioni che si solleveranno contro altre nazioni, di “regno contro regno”: sembra che annunci veramente la “fine del mondo”! Che la fine sia vicina?
Interpello il mio amico biblista: “Non ti preoccupare! Il capitolo è sempre stato soggetto a varie interpretazioni. Piuttosto leggi il capitolo intero, tutto traboccante di gioia e di trepidazione. Il Figlio dell’Uomo descrive il mondo presente per disegnare la fine del mondo. Tra la distruzione del Tempio e la fine del mondo scorre il tempo, di cui tutti noi siamo protagonisti. Dopo “l’abominio della devastazione” il Re entra con discrezione in questa storia che noi viviamo attendendo la sua seconda venuta nella gloria. Il tempo presente, pieno di tribolazioni, ci suggerisce di essere vigili nell’attesa. Gesù, leggendo il futuro dei giorni, da un lato desidera proteggerci dallo smarrimento e dall’altro ci fornisce i mezzi per la salvezza: tenere gli occhi aperti, guardarci dalla menzogna, dall’inganno di coloro che useranno nomi e parole religiose per imporre se stessi.”
Non ho dubbi sulle affermazioni dell’amico. Riprendo a leggere e a folleggiare dentro di me. Il Maestro e quattro suoi discepoli hanno visitato il tempio costruito da Salomone, per tre volte distrutto, ma ricostruito sempre più imponente. I discepoli ne sono ammirati e uno di loro, estasiato, invita Gesù a contemplarlo. Gesù, un po’ crudamente, gli risponde che non resterà pietra su pietra che non sarà distrutta, avvenimento che avverrà realmente ad opera dell’imperatore Tito nel 70 d. C.
“Che le parole di Gesù non custodiscano un significato simbolico?” – alludo dentro di me. Il Maestro è appena uscito dal tempio dove ha visto una religione fatta di personaggi che indossano vesti lunghe, ambiscono a posti di prestigio, pregano per esibizione. Forse Gesù, rispondendo al discepolo, voleva dire che della religione ridotta a teatro, senz’anima, non sarebbe rimasto proprio nulla. Sarebbe rimasta solo la fede di quella povera vedova che aveva messo nel tesoro del tempio tutto quello che aveva per vivere. Gesù va “oltre” lo spazio: non ci si serve del tempio, ma si serve il fratello e la sorella con amore. Gesù va “oltre” i confini dell’edificio sacro perché il confine è la negazione dell’amore. Non solo la terra di Gesù è “santa”, ma tutto il mondo è santo. E va “oltre” il tempo: guarda al futuro, quando il Figlio dell’uomo verrà, tornerà, balenerà in cielo per liberare i giusti e li convocherà nella strepitosa luce della sua gloria divina.
Il discorso, poi, che Gesù fa sulla storia, che tanto può angosciarmi, è un invito a interpretare i segni dei tempi, del nostro tempo. Mi scervello: “Gesù è andato contro la legge. Era ebreo, ma è andato “oltre” la sua cultura, la sua religione, la sua storia. È andato “oltre” la schiavitù della legge, non ha fatto della legge una casistica che uccide. No, della sua legge (“Amatevi fra di voi come io vi ho amati”) ha fatto una fonte di libertà perché il Padre si adora in spirito e verità. E chi ha saputo amare, anche con cuore di uomo, sarà sospinto a forza d’angeli nelle letizie dell’eternità. È un invito a guardare al futuro con fiducia unita alla speranza perché “oltre” ci sono solo o Lui o la disperazione. La vita è camminare amando, cercando di essere amati.
A Natale, a cui questa prima domenica di Avvento ci prepara, ricorderemo che al centro della nostra fede non ci sono un Dio – parola ambigua e insufficiente come in tutte le religioni – ma Dio che nessuno ha mai visto, divenuto uomo in Gesù, carne umana, fragile, mortale, un Padre che ci è stato rivelato, spiegato, narrato, mostrato da suo Figlio il quale ci invita ancora oggi a non essere consumatori del sacro, ma uomini che, camminano sulle strade di questo mondo, attestando con il nostro stile di vita che c’è un solo Padre e noi siamo tutti fratelli.
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