Ha scritto padre David Maria Turoldo: “Di Ettore Masina credo si dovrebbe parlare di più. Almeno parlare di quel suo particolare stile di comunicare, che è fatto di gridi a voce trattenuta, e di silenzi, di aggressioni e di dolcezza, e di tenerezze che si aprono all’improvviso come fiori anche fuori stagione”.
Tutto questo ci è tornato in mente, ricercando un vecchio romanzo di Ettore Masina: “Il volo del passero”, edizioni San Paolo. È un vecchio romanzo, che si trova ormai solo di seconda mano nei soliti siti internet. Al romanzo Ettore Masina è arrivato tardi. Il suo strumento naturale di comunicazione non era il racconto. Era uomo di cose concrete, con la necessità di toccare con mano la realtà. Prima a Il Giorno e poi in Rai aveva saputo mostrare il suo sguardo sulla realtà, non solo per decifrarla ma anche per cambiarla.
E proprio per seguire il sogno di cambiare la realtà, aveva fondato l’associazione “Rete Radiè Resh” (dal nome di una bambina palestinese molta di polmonite e di stenti dopo che la sua casa era stata distrutta dai soldati israeliani). L’associazione nata dall’incontro con padre Paul Gauthier nel 1964 (che ha visto a Varese proprio la sua tappa fondamentale grazie alla collaborazione con Remigio Colombo, professore di filosofia al Liceo classico Cairoli) ha lo scopo di sensibilizzare sui temi delle disuguaglianze tra nord e sud del mondo, con interventi concreti prima in Palestina, poi in America latina.
Ne avevamo già parlato in un precedente articolo del 31 gennaio 2020 su RMF online, ricordando un saggio di Masina “Quando dico speranza”: un libro che in questi tempi strani non sarebbe male rileggere.
Lo strumento del romanzo, dicevamo, è stato utilizzato poco e tardi da Masina. E forse non è neppure lo strumento con cui si era trovato più a suo agio. Era uomo di attualità, di analisi, di saggi, non di storie inventate. Ma il romanzo, forse, gli aveva permesso di tentare altre strade, un altro modo per comunicare per raggiungere nuovi lettori. Sempre padre Turoldo di lui aveva detto: “Lo scrivere come una missione e tutto in aderenza a quello che si vive”.
Il suo primo racconto “Il ferro e il miele” (edizioni Rusconi) è del 1984. Aveva 56 anni. Erano gli anni dell’impegno politico. Aveva lasciato la Rai, dopo l’elezione a deputato, rappresentando la Sinistra Indipendente nella Commissione Esteri, per essere poi eletto all’unanimità come presidente del Comitato per i diritti umani.
Solo molti anni dopo, nel 1997, troviamo un altro romanzo, edito da San Paolo: “Il volo del passero”. L’ambiente è quello dell’America latina, un paesino sulle montagne delle Ande, una terra che conosceva bene. E dell’America latina sono tutte le diseguaglianze, le miserie, i contrasti, il miscuglio tra preti e sciamani, tra Madonne e dei.
La storia vede come protagonista Simòn Velàzquez Caballo, figlio del padrone di una miniera di stagno, discendente dei conquistadores. Il paese in cui si svolge la storia ha un nome di preghiera: El Sagrado Corazòn de Maria, nato attorno alla miniera, collegato al fondovalle attraverso un’ unica inquietante strada terribile a strapiombo sul baratro in fondo al quale scorre il fiume. E proprio attorno alla paura del vuoto del protagonista Simòn, incapace a superare la paura di questa strada, si sviluppa tutto il racconto.
Questa paura raccoglierà il disprezzo del padre, la chiusura della madre in un rapporto possessivo e malato, il rifugio nei libri e nell’isolamento disperato, in una ricerca nevrotica di santità e di conoscenza. Attorno ruotano personaggi e storie: due preti molto diversi, chiusi in questo paese fuori dal mondo, ognuno con la propria attesa. E poi una maestra dai cappellini pieni di fiori, che finirà per fare da madre ad una bambina india a cui insegnerà il castigliano (la lingua dei padroni) e tutto il sapere che alle altre bambine indie la storia aveva sempre negato. E infine l’incontro d’amore tra questa bambina, diventata donna, e il protagonista Sìmon.
Riuscirà Simòn, dopo aver incontrato l’amore, a superare la paura di quella strada che lo ha tenuto prigioniero per tutta una vita, chiuso in una biblioteca attraverso cui aveva creduto di poter conoscere il mondo? Eppure potrebbe bastare “il volo del passero” (da qui il titolo del libro) cioè un percorso di appena un centinaio di metri per superare il passaggio più vertiginoso e terribile di quella strada, che si snoda sulla paura.
Non sveliamo il finale, per non rovinare la sorpresa nel caso qualcuno volesse ripescare questo romanzo per leggerlo.
Sta di fatto che questo racconto ha molte chiavi di lettura: psicanalitica innanzitutto nel rapporto doloroso del protagonista con il padre, con la madre, con il paese, con il “vuoto”, con le proprie angosce. E poi sociale, nella presentazione, attraverso questa storia, dei drammi dell’America Latina, dove analfabetismo, malattie, ingiustizie si tramandano nelle generazioni.
E infine troviamo nel racconto qualcosa di ciascuno di noi. Possiamo ritrovarci nel padre o nel figlio, in un domestico infedele, in un dettaglio, in una risposta, nella maestra dal cappello a fiori o in un indio. O anche in una delle angosce di Simòn. Nessuno si senta escluso. Da qualche parte, nel romanzo, ci siamo anche noi. Anche noi in attesa di soluzione.
È una storia di dolore acuto, personale e sociale, un dolore che grida di essere superato, come ogni dolore.
Il finale, che non sveliamo, saprà aprire uno squarcio sulla speranza?
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