Dalla fondazione dell’Ordine la Compagnia di Gesù non ha sempre goduto di buona fama. Tutta una produzione libellistica si è accanita nel dipingerlo in negativo. Il “papa nero” (il Superiore) e si suoi “compagni militarizzati” costituivano un mito negativo. Cartesio e Pascal criticavano la vuotezza retorica della loro didattica, il lassismo morale della malfamata “casistica”. De Sanctis li ha così giudicati: vestirono la società a nuovo per meglio conservare il vecchio. Novalis per altro verso ha così riconosciuto la loro azione:” fondarono scuole, penetrarono nei confessionali, salirono alle cattedre e occuparono le stamperie, divennero poeti e filosofi, ministri e martiri”, segno di un impegno e di una organizzazione veramente encomiabili. Si può dire che in Europa a seguito del Concilio di Trento l’Ordine si legò soprattutto al campo dell’istruzione e alla rete dei Collegi, nei quali per due secoli poté formarsi la classe dirigente, cattolica, ma anche protestante. Maggiori furono le richieste di iscrizione rispetto alle possibilità di ricezione.Lo scopo era quello di “trattenere li sudditi nel timor santo d’Iddio et confirmatione de la santa fede catholica”.
Alla morte di S.Ignazio (1556) 33 Collegi figuravano già aperti, di cui sei già approvati, il primo quello di Messina, fondato nel 1548 dal Nadal, collaboratore di S.Ignazio nello stendere le Costituzioni, vicario generale della Compagnia e poi sovrintendente del Collegio Romano. Nel 1599 risulta datata la stesura definitiva della Ratio “absoluta ac plane constituta” da applicare “alacriter et exacte” (463 le Regole disposte in ordine gerarchico). Con una istruzione del 1556 “pel Collegio che si manda a Ingolstadt “ su richiesta di Alberto V di Baviera S.Ignazio raccomandava: “vedasi che le fatiche siano temperate con discretione, interponendo la remissione necessaria per mantenersi sani et pigliando la necessità del corpo…li heretici, se ben fussero presenti, sentano charità et modestia christiana, né li sia detta ingiuria alcuna, né si mostri spetie di sdegno contra loro errori”.
Metodi e terminologia della Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu si ispirarono nel momento di nascere al modus parisiensis, ordinamento degli studi dell’Università e dei Collegi di Parigi (caratteristica l’acquisizione dell’orientamento umanistico, che stabiliva il primato degli studi letterari e prescriveva la lettura dei classici; pianificato l’apprendimento e per piccoli gruppi, con un controllo individualistico del profitto; lingua ufficiale della cultura un latino irrigidito e codificato). C’era tutto un seguito di cerimonie, dispute e recite, in evidenza un sistema di premi e di castighi, definiti i criteri didattici e gli imperativi morali, con i richiami alle tradizioni. Come arma disciplinare consueta si raccomandavano le buone parole e le esortazioni. Ogni momento della giornata era vigilato. Accanto alle norme gli esercizi: assillante ripetizione di nozioni mandate a mente piuttosto meccanicamente, formule, con imitazione di modelli. Era una vera e propria tecnica di addestramento a compiti ripetitivi. Note distintive erano inoltre il coordinamento dei programmi, la progressività dell’insegnamento, la scientificità della verifica. Ogni particolare organizzativo veniva curato, si faceva attenzione ai libri di testo. Al fondo c’era la preoccupazione di creare un corpo di funzionari vasto e ramificato, di esecutori solerti.
Il meccanismo selettivo era basato su compiti, interrogazioni, voti, esami, con il seguito di registri, pagelle, scrutini. I corsi inferiori prevedevano 3 classi di grammatica, seguite da due classi di umanità e retorica; filosofia e teologia, al vertice degli studi, venivano studiate soprattutto in base ad Aristotele e S.Tommaso col metodo proprio della Scolastica (disputa sulle quaestiones). Nel complesso si trattava di un sistema scolastico accentrato e sapientemente gerarchizzato, non di una elaborazione individuale, quanto del prodotto collettivo di una sperimentazione scrupolosa. E non era assente la concessione di una flessibilità che si adattasse alle necessità dei tempi e dei luoghi.
A distanza di due secoli le riforme dei vari Stati coi nuovi ordinamenti ricalcherannmo sostanzialmente questa impostazione. Le Legge Buoncompagni del 4 ottobre 1848 nel Regno dei Savoia ripeteva l’iter della Ratio. Anche la Legge Casati, nata senza discussioni parlamentari, perseguiva il principio di selezionare una classe dirigente piccola, ma ben preparata (la cultura umanistica quale valore unificante per l’élite, il ginnasio-liceo via maestra per l’istruzione universitaria e le carriere direttive). Lo statalismo, piuttosto che una rivoluzione di metodi e di programmi. È vero anche che i Gesuiti integrarono ben presto i programmi della Ratio con l’invenzione delle attività facoltative, dedicando cura maggiore alla lingua materna, non trascurando gli studi scientifici, specialmente nel campo della matematica e dell’astronomia.
Per concludere si può parlare al proposito della prima istituzione deliberatamente moderna. Accanto alla cura di iniziative di prestigio e promozionali c’era in rilievo la necessità dei frequenti ripassi (imparare poche cose magari, ma a fondo). Assente la possibilità di autonomia per gli studenti. Ecco il profilo dei docenti: siano costanti negli umori, prudenti, pazienti, ma pure distaccati e autorevoli; parlino poco coi discenti e solo di cose serie. Quanto di tutto questo rimane nella nostra scuola, fallite tante “rivoluzioni”? Nonostante tutto però si può affermare che larghi spazi di libertà si sono aperti, di ricerca, di dialogo, d’abito critico, più che altro in virtù dell’impegno speso dai docenti più consapevoli e appassionati, nonostante i vizi del sistema.
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