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Cultura

DEACCESSION

ROBERTO CECCHI - 06/11/2020

deaccessionSono proposte furbe, anzi furbette, quelle di vendere una parte del patrimonio culturale per far cassa. Ma non sono intelligenti. Peggio, sarebbe l’ennesima operazione cervellotica, addirittura più insulsa di quella di qualche anno fa, quando prendemmo una dura lezione svendendo, e andando incredibilmente in perdita, una parte cospicua del patrimonio pubblico. Ma non c’è da stupirsi che qualcuno ci provi di nuovo, battendo altre strade. Perché nei momenti difficili succede immancabilmente che qualche illuminato senza luci provi a fare quel che in altri momenti non avrebbe neanche osato pensare. Che cosa sta accadendo adesso? Ora, da qualche mese, all’estero, negli Stati Uniti in particolare (ANSA, Alessandra Baldini, 4 maggio 2020), accade che molte istituzioni museali si trovino in condizioni finanziarie pessime e per questo si troverebbero costrette a vendere una parte del loro patrimonio. Il Metropolitan di New York avrebbe un ‘buco’ di 150 milioni di dollari. Si dice che anche questo sia colpa del Covid, un vero e proprio rifugium peccatorum, dietro al quale ormai si può imbucare qualsiasi cosa. Comunque sia, pare che anche il Baltimore Museum of Art sia in forte difficoltà e abbia messo all’asta i suoi tre gioielli, tra cui l’Ultima Cena di Andy Warhol; anche in Europa sta succedendo qualcosa di analogo, perché la Royal Academy of Arts di Londra ha fatto sapere di avere intenzione di vendere il Tondo Taddei di Michelangelo e, addirittura, in Francia qualcuno ha proposto di mettere all’asta la Gioconda di Leonardo per la stratosferica cifra di 50 miliardi di euro e far quadrare un po’ i conti del paese e non solo del museo. Anche lì, la colpa sarebbe del Covid.

Per ora si tratta solo di (cattivi) propositi che non mi pare siano andati troppo lontano. Non hanno avuto un gran seguito, almeno per ora se non a parole. Ma siccome le brezzoline che spirano di là dall’oceano da noi, in quattro e quattr’otto, diventano dei tornado, è bene dire subito le cose come stanno. Vendere il patrimonio culturale non risana i conti d’un paese. Li impoverisce. Ed è paradossale pensare ad operazioni del genere quando, da poco, finalmente si è scoperto che quel patrimonio genera valore, produce ricchezza, nonostante lo slogan ancora molto in voga, secondo cui “con la cultura non si mangia”.

Il turismo culturale, che è la gran parte dell’intero comparto, vale qualcosa come il 14-16% del PIL. Dunque, è un contributo importante per lo sviluppo del paese, che sta a livello, se non al di sopra, di altri settori industriali più celebrati e più coccolati. La gente viene in Italia da tutto il mondo (alle volte, e in alcuni contesti, anche troppo) per vedere i nostri capolavori, non per altro. E se si aggiunge anche che questo patrimonio è in grado di generare capitale sociale, e cioè essere un catalizzatore di coesione sociale, fiducia e consapevolezza identitaria, è chiaro che siamo di fronte una risorsa formidabile, che non è monetizzabile in dobloni, come vorrebbero i ragionieri, ma vale tantissimo.

Basterebbe questo per dire che non si dovrebbe neanche immaginare di ripercorrere la strada dei saldi. E a chi obietta che i depositi dei nostri musei sono strapieni di opere e quindi l’idea di ricavarci qualche soldo non farebbe male, vuol dire che non sa, o fa finta di non sapere, che i depositi sono il cuore di un museo. È attraverso i depositi che un museo si rinnova in continuazione e può prestare le sue opere a chiunque lo meriti. Se non ci fossero i depositi, gli Uffizi, che ogni anno prestano centinaia di opere per musei di tutto il mondo, avrebbero le sale spoglie, oppure non potrebbero dare ad altri quello che hanno. Perderemmo molto, perché vorrebbe dire che non saremmo più considerati quegli ambasciatori della cultura che siamo. Un credito che in pochi possono vantare.

Agli smemorati di Collegno va ricordato quel che è successo in Italia a partire dal 2001, quando si decise di cartolarizzare una parte del patrimonio immobiliare pubblico. Lo spunto fu la necessità di risanare la finanza statale, abbattere il debito. Le stesse cose di oggi. Per far fronte a questo, si decise di smobilitare il patrimonio a partire da quello più pregiato, trasferendo quei beni a società esterne (delle società-veicolo) che avrebbero dovuto emettere obbligazioni sui mercati internazionali e destinare il ricavato a risanare il bilancio. In due fasi ravvicinate (2001-2002) fu cartolarizzato qualcosa come 90.000 unità immobiliari. Alla fine di un tortuoso percorso, che solo un prestigiatore professionista può spiegare, la liquidazione di tutta l’operazione fece perdere ai conti dello Stato del 2009 la bella cifra di 1.720 milioni di euro. E molto altro ancora che è anche difficile dire. Questa, dunque, la bella fine delle cartolarizzazioni, le securitization, detto in inglese; la mitica finanza creativa, responsabile dell’incredibile crollo finanziario del 2008. Ora, la parola inglese per le vendite d’opere d’arte per risanare i conti dei musei è deaccession. Cacofonica e ambigua. Più brutta della sorellina che la precede e già questo dovrebbe suggerire di starne parecchio alla larga.

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