Diciamolo, la luce di Vincenzo Nibali cominciò ad affievolirsi già al Giro dello scorso anno quando, stressato dalla rivalità con lo sloveno Roglic, non seppe valutare le pericolosità dell’ecuadoregno Richard Carapaz – somaticamente un sosia di Chiappucci – che li beffò entrambi portando la maglia rosa a Milano. Nelle ultime tappe, fitte di montagne arcigne come il Mortirolo e il Manghen, aveva tentato di far saltare il banco come in precedenti occasioni, ma le salite lo avevano discretamente respinto: nessun crollo, nessun incontro ravvicinato con l’homme au marteau come i francesi chiamano la cotta, la giornata no. Solo un lento scivolare all’indietro, un appesantimento della pedalata, la crescente difficoltà di tenere allineati e in sinergia cuore e polmoni, l’impossibilità ad alta quota di reggere gli scatti ripetuti della concorrenza.
Tutti abbiamo benevolmente sperato in un appannamento momentaneo. Non fu così, la conferma arrivò a fine stagione al Giro di Lombardia già per due volte suo. Sul Civiglio, l’erta maligna che anticipa il passaggio da Como prima dell’arrivo sul lungolago, il campione siciliano si arrese. Copione che si è ripetuto quest’anno al sole di agosto. Non ancora una prova del declino ma un forte indizio sì. La conferma di un appannamento visibile è arrivata meno di un mese dopo nel Giro fuori stagione di quest’anno, corso sotto l’ipoteca del Covid 19 e nel gelo di alcune tappe semi invernali.
Indicato dalla competenza come il favorito d’obbligo al pari del britannico Geraint Thomas (suo il Tour 2018, ma eliminato dalla sorte avversa su una strada della Sicilia orientale a inizio Giro), Vincenzo si è arreso nelle decisive tappe dello Stelvio e del Sestriere. Non un tracollo intendiamoci, ma è stato amaro per chi ama questo sport di fatica e di dolore vederlo scivolare inesorabilmente su un piano inclinato: al settimo posto della cosiddetta “top ten” ovvero i primi dieci della classifica. Un risultato che non aggiunge nulla alla sua strepitosa carriera. Forse sarebbe stato preferibile per lui un acuto in una tappa senza più curarsi della classifica.
Si parla giustamente di cambio generazionale spulciando l’ordine d’arrivo della corsa della Gazzetta dello Sport. I primi cinque infatti sono tutti giovani (Kelderman) e giovanissimi a cominciare dal vincitore Teo Geoghegan Hart e dal secondo, l’australiano Jai Hindley. Per tacere del quinto classificato il ventenne portoghese Joao Almeida che per tre settimane di corsa ha tenuto tutti sotto scacco. Il nuovo avanza senza discussioni e parla inglese, ma resta da capire se la capitolazione della vecchia guardia non sia almeno in parte imputabile alla stagione anomala, compressa e stressata dentro tempi troppo ravvicinati che penalizzano chi marcia verso i trentacinque anni e oltre, una stagione atletica in cui per recuperare le fatiche serve più tempo. Tutto questo Nibali lo sa meglio di chiunque altro e sa anche che l’ultima cosa da fare sarebbe quella di barare con se stesso, lui che da dieci anni con le sue vittorie e la sua classe maschera il vuoto di talenti italiani nelle grandi corse a tappe.
Se ci saranno le condizioni atletiche e mentali siamo sicuri che lo squalo dello stretto cercherà di celebrare il suo passo di addio in ben altro modo. Magari con un’impresa degna del suo grande passato, magari puntando di nuovo sul Giro di Lombardia che ne ha esaltato sempre le qualità di atleta estroso, istintivo, poco incline alla dittatura dei computer. Le cifre del suo albo d’oro del resto parlano per lui: due Giri d’Italia, un Tour di France, una Vuelta vinti alla grande più altri sette podi. Dietro solo a Gimondi (12 podi) ma davanti a Bartali e Coppi rispettivamente con 10 e 9. E poi tre classiche monumento, due titoli italiani e tanti altri successi come l’indimenticabile Tre Valli 2015. Sarebbe davvero bello se il “vecchio” campione trovasse un ultima clamorosa zampata, lo sarebbe per lui, per i suoi tifosi e per tutto il ciclismo in cui ha portato, con tanti successi, anche educazione, signorilità, misura. Gli esempi di coltivata longevità nel ciclismo peraltro non mancano. Due anni fa il selettivo mondiale di Innsbruck venne vinto a 38 anni dal suo collega Alejandro Valverde, straordinario campione iberico ancora in attività. Un precedente non certo frutto del caso.
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