L’umanità ha conosciuto nel tempo pandemie che hanno stravolto e cancellato milioni di esistenze, modificato gli assetti economici e culturali di nazioni e continenti, seminato paura e morte, ma anche speranze e voglia di rinnovamento. Se guardiamo le carte geografiche che le raccontano non possiamo non impressionarci davanti alle chiazze di colore che macchiano di malattie, e pestilenze in genere, la sagoma geografica di una realtà universale che ha tutti sfiorato. Le possiamo consultare, se lo vogliamo, ogni giorno: sui giornali o sugli schermi di cui disponiamo, piccoli e grandi, in cui speriamo, attraverso l’informazione, di annegare paure e dubbi che assillano da mesi la nostra quotidianità. Questa possibilità di sapere, grazie all’avanzamento degli studi e alle tecnologie, ci distingue dai nostri antenati, da chi ci ha preceduto nel tempo e ha combattuto con nemici anche più aggressivi del nostro Covid.
Sappiamo oggi di avere medicamenti, possibilità di raffronto tra Paese e Paese e maggiori conoscenze scientifiche. Eppure l’impressione, mentre il morbo corre e dilaga, è di essere nudi più che mai di fronte alla malattia. Della quale ci accorgiamo di conoscere ancora poco, di non avere approntato, come si sarebbe potuto fare, farmaci mirati, sufficienti postazioni di soccorso e cura dedicate. Scopriamo anche il disaccordo tra scienziati, o le lotte avide dei furbi tese ai guadagni. La malattia e la morte in troppi casi diventano un affare colossale per i soliti squali e le mafie in cerca di guadagno che, presto o tardi, si spera finiscano nelle loro stesse reti. Ci sentiamo abbandonati, come il figlio di Dio sulla Croce.
Molti di noi allora pregano, pregare aiuta e fa bene all’animo smarrito anche di chi spesso dimentica il Padre suo. Ma quei molti di noi cercano anche, a volte, di saperne di più. Appuntano il dito sull’Atlante, focalizzano la loro piccola patria e vogliono capire come si comportavano i loro padri, non quelli celesti, ma terreni. Poi passano di libro in libro, scorrono tra le pagine, e scoprono cosa succedeva centinaia di anni fa, ogni volta che la pandemia spargeva la paura come sale sul ghiaccio.
La curiosità del nostro capoluogo, delle nostre terre, ci ha portato dunque ad aprire un libro, di cronaca naturalmente. Perché sono i cronisti i testimoni del loro (e del nostro) tempo. Il libro si chiama Cronaca di Varese di Gio. Antonio Adamollo e Luigi Grossi. Pubblicato nel 1931, a cura di Angelo Mantegazza, è compendio di cronache di secoli, scritte e raccolte con mano paziente dal Tatto, da Marliani, dal medico Grossi e dall’Adamollo. Nel 1998 é stato ripubblicato dalla Società Storica Varesina e dalla Famiglia Bosina per i tipi di Nicolini Editore.
Credo che chiunque dovrebbe avere in casa un libro di storia locale che racconta la quotidianità della propria terra. Meglio di un atlante, di mille saggi di storia, del più godibile dei romanzi. Indispensabile come un ricettario gastronomico o come un prontuario di medicina, può aiutare, caro lettore, a uscire dal tunnel di un pauroso ripiegamento su se stessi.
Perché, come in un altorilievo, oggi si direbbe in 3D, ti si affaccia la vita di un territorio e insieme il senso universale della vita di ciascuno.
Incontri guerre, non solo quelle militari con le invasioni dei “Galli e delli Allemanni”, come capitava qua, ma anche quelle quotidiane tracciate sul solco di carestie, ingiustizie, diseguaglianze irriducibili tra ricchissimi e poverissimi, sentenze di morte eseguite -con crudeltà e convinzione di chi le richiedeva- al prezzo salato imposto dal boia, che arrivava dalla Svizzera.
E i personaggi tutti di cui si parla, siano signori o alti prelati come i due Borromeo- il San Carlo e il Federigo dei Promessi Sposi- siano contadini e artigiani, miserabili o accattoni, si animano e prendono vita. E si schiudono i portoni delle case, si abbassano i ponti levatoi a difesa dagli assalti. O si costruiscono i lazzaretti, come oggi. Né più né meno. La nostra vita pare agganciarsi alla loro. E il nostro passo si affianca al passo dell’uomo di ieri. Ma vediamo allora.
Nel 1244 è la prima peste citata. Ed ecco la testimonianza, breve ma di grande interesse della Cronaca: “Incominciò l’anno 1244 con grande carestia. E verso la metà di marzo venne poi in Lombardia un tanto pestifero morbo, che i morti si seppellirono senza suono di campane, e senza lagrime dei congiunti per la frequenza e terrore che le morti incutevano. “Pare qui di rivedere le nostre tristi carovane delle vittime da Covid di Bergamo.
Ma, corsi e ricorsi della storia, c’è anche una consolazione, e un necessario ammonimento alla attenzione vigile di ciascuno di noi: “Varese però ebbe minor mortalità di ogni altra città circonvicina, forse per la salubrità dell’aria, e per le precauzioni dai consoli praticate”.
Nell’anno 1576 però ci risiamo “In agosto principiò la peste, ossia contagio nella città di Milano, e molte terre del Ducato, e fece progresso per molto tempo, essendo cessata solamente alli 20 gennaio del 1578, giorno di San Sebastiano”.
Non annota poi il cronista negli anni seguenti altri eventi di malattie, ma fenomeni meteorologici e astrali che certo dovevano molto stupire e impaurire a quei tempi, più di quanto non avvenga oggi. E infatti nel 1580, di seguito alla posa della prima pietra nella cappella del Rosario in San Vittore, nel giorno 23 maggio, con benedizione e processione del prevosto Cesare Porro, il nostro riporta, non senza qualche esagerazione: “Alli 25 agosto detto anno, cascò la saetta nella Chiesa di S. Maria al Monte, ovvi erano da seicento persone forestiere che sentivan messa che si celebrava all’altar Maggiore della Madonna, ed entrò il detto fulmine da una porta di detta chiesa ed uscì dall’altra senza far danno a persona alcuna, quantunque cascassero quasi tutti quelli che erano in detta chiesa, atteso che pareva che la chiesa andasse tutta a fuoco, e nel medesimo tempo tempestò in molti luoghi. Nel 1581 la buona notizia che “la Chiesa dei Convento P.P. Cappuccini è stata sgrandita” precede una nota ancora legata al maltempo: “Alli 13 maggio venne un vento così fiero che gettò a terra molte piante e parte del corridore del campanile di S. Vittore di Varese e ciò fu circa alle ore 4 di notte”. Per dar l’idea di quanto i tempi fossero uguali all’oggi potremmo ricordare, nel 1585, il terremoto a Milano l’8 febbraio “ che fece tremare il Castello e città, ma senza danno”e le tempeste a Varese del 20 di maggio, con “danno grave delle viti, che tutto fracassò”.
L’anno seguente, è il 1586, si registra l’allagamento del Borgo il 19 giugno, con maltempo e freddo fino al giorno 27 dello stesso mese, “danni ai borghesani” con allagamento e danneggiamento “delle cantine, campagne e vigne da Velate fino a Varese.
È poi nel 1596 che si riafaccia, nella cronaca locale, la minaccia vicina della peste in Svizzera. “Sono più di quattro mesi che la peste va facendo progressi nelle terre del Luganese”.
E nel 1599: “La peste in Piemonte, particolarmente in Torino, fa del danno grande ed è un anno che fa progressi”. L’anno seguente si registra un inverno molto freddo con morte di molte piante persino in Liguria -“Limoni, Naranzi e cedri”- per via della forte neve. A maggio è ancora la volta di Varese con diluvi di acqua e lo straripamento dell’Olona che guasta ponti e molini. A Gurone arriva anche un lupo affamato, strappa un bimbo a una donna che lo aveva tra le braccia e se lo prende. Anche un uomo è scannato dai lupi a Morazzone, nello stesso giorno.
Poi, è il 1630, anche a Varese si affaccia la peste di manzoniana memoria, la più terribile e duratura, che si diffonde via via negli anni seguenti “In questo anno 1630 vi fu un contaggio in Varese, essendo morte molte persone di detto male nei mesi di settembre, ottobre e novembre”. Sempre in ottobre, novembre, dicembre, ma era oramai il 1631, “furono sospese le scuole delle dottrine cristiane per il timore del contaggio, come appare nei libri delle scuole della dottrina cristiana di S. Lorenzo, e alli 21 settembre morì il Cardinal Federigo Borromeo”. Di nuovo l’anno seguente furono sospese le scuole “dalla seconda domenica di ottobre persino al giorno di S. Martino per sospetto di detto contaggio”. Il sospetto si farà certezza drammatica e concreta con la costruzione del Lazzaretto nel Casa delle monache in Bosto, poi trasportato, “per riclamo di quelli di Bosto e per sentenza del magistrato della Sanità alla Casina di Pero”. Precedentemente “li apestati di Varese furono ridotti in baracche fatte in una selva sotto Giubiano, guardante Biumo Inferiore e Belforte, ma sopraggiunto l’inverno li ammalati rimasti furono ridotti in Bosto nel Monastero di S. Chiara”. Per poi ritornare al punto dipartenza.
Anche la nostra narrazione torna là da dove è cominciata, da una città, Varese, che nei mesi passati ha saputo difendersi meglio di altre, nonostante la recrudescenza del morbo.
Chi ricorda la colonna infame del Manzoni e “I promessi Sposi”, ricorda anche le incertezze e l’opportunismo politico del governatore Don Gonzalo Fernandez de Cordoba, che, sottovalutato il pericolo del contagio portato dalle truppe dei Lanzichenecchi, si oppose alle preoccupazioni di Alessandro Tadino, membro del tribunale di Sanità, e diede l’assenso all’ingresso invitando la cittadinanza ad affidarsi alla provvidenza. Con quanto ne conseguì. L’alta diffusione del morbo portò oltretutto all’intemperanza del popolo, già provato da carestie e bellicosità, che negava la pericolosità e voleva continuare a vivere la propria vita.
La nostra storia locale ci conforta però ancora. Un altro, molto più lontano episodio storico, ricorda una netta vittoria di Varese sulla pestilenza. Fu una chiusura pressoché totale, un vero lockdown, nessuno poteva entrare o uscire. Ma alla fine risultò la miglior scelta.
You must be logged in to post a comment Login