La cosa che costa meno in tv è il talk show: prendi un po’ di ospiti, li metti a sedere e il gioco è fatto. Te la cavi con un “gettone” e se il tizio è parlante, si produce prezioso minutaggio senza colpo ferire, senza corpi di ballo, lustrini e cotillons, che è tutta roba che costa e serve pure impegno a procurarsela. Magari poi l’ospite è pure un “faccione”, e viene gratis perché deve promuovere un libro, un film, un disco, insomma qualcosa. E già che è li, seduto in poltrona, un fuori sacco si riesce a estorcerglielo sempre… forse addirittura scappa la lacrima, se al momento giusto esce la foto di quando era con mammà al mare, o gli piomba a sorpresa il videomessaggio del figlioletto che non vede da dieci minuti.
L’inventore del genere, in Italia, è d’uopo identificarlo in Maurizio Costanzo, che con “Bontà loro”, sul finire dei ’70, cominciò la sua fortuna davanti alle telecamere: la trovata di formato, in quel caso, era l’apertura delle persiane di una finestra nella scenografia, a inizio puntata, e la sua chiusura a fine trasmissione. Da lì, fu tutto un fiorire di serramenti che si aprono e chiudono, basti pensare alle porte di “Carràmba che sorpresa”, di “Stranamore”, fino ad arrivare alla busta e parete mobile di “C’è posta per te”.
Tornando ai talk, il livello zero assoluto del costo (e spesso anche del profitto contenutistico) è comunque dato dai politici: quelli – se non fossero proverbialmente affamati di prebende – pagherebbero di tasca loro (cioè nostra) per presenziare. Certo di acqua ne è passata molta sotto i ponti dai tempi delle tribune politiche di Ugo Zatterin, un equilibrista della parola che neanche al circo Togni se ne trovavano di così bravi. Le sue complesse perifrasi per evitare di pronunciare termini giudicati all’epoca sconvenienti, come “membro di gabinetto” sono ormai materia che si studia all’università.
Ma la spettacolarizzazione del genere va attribuita – correvano i tardi anni ’80 – a Michele Santoro con la sua “Samarcanda” (1987-1992), nella quale si raccontò la fine del pentapartito e l’arrivo di Mani Pulite, dando spazio – in giro per le piazze, le fabbriche e i luoghi caldi della cronaca politica – alla voce di chi alla politica voleva parlare (e magari urlare contro) perché era stufo di ascoltarla e basta. Fu poi la volta di Gad Lerner, con i suoi “Profondo Nord” (1991-92) e “Milano, Italia” (1992-94), seguiti da “Pinocchio” (1997-99) a portare in scena sulla terza rete (diretta dal geniale Angelo Guglielmi, già co-autore di Bontà Loro) la questione settentrionale, i primi leghisti al grado zero del folklore (erano i tempi di Bossi con le giacche a quadrettoni e la riga in mezzo ai capelli calcata con l’aratro, una sorta di Leonardo Di Caprio della Pedemontana) mentre la politica romana cadeva sotto i colpi del pool di Mani Pulite.
La faccia dei politici, più che quel che dicevano, diveniva spettacolo: salivano i toni dello scontro, il pubblico in sala partecipando, rumoreggiando, mugugnando prendeva il ruolo del coro delle tragedie greche, diventava cioè un protagonista attivo della nuova scena politica, i cui i vecchi “onorevoli” erano costretti a uscire dal Transatlantico per andare a sporcarsi tra le urla della gente, le monete lanciate dalla folla inferocita, le contestazioni dei sindacati. In scena, sedevano su ruvide casse di legno, tipo pallet, e non più su comode poltrone: piccolo segno dei tempi.
In onda dal 1996, “Porta a Porta” di Bruno Vespa è stata definita la terza camera della Repubblica: lì l’elemento contaminante non era più il pubblico vociante, ma lo show: ecco Berlusconi alla scrivania che firma contratti, D’Alema che cucina risotti, la Parietti che sentenzia sulla Costituzione e la Mussolini che tira i capelli alla ministra ex comunista che non le sta simpatica: era quella l’epoca della politica spettacolo: fintamente alla mano, in realtà studiatissima. C’era anche il maggiordomo ad aprire la porta (riecco l’infisso!) all’ospite che si aggiunge al parterre.
Ora, si è perso un po’ il gusto per lo “studiatissimo”: siamo nella fase della politica avanspettacolo, ottimamente celebrata nei talk show come “Fuori dal Coro” (Rete4, martedì in prima serata), in cui il conduttore Mario Giordano si produce in gustosi, salaci, coloriti siparietti per introdurre l’argomento del giorno. Eccolo quindi seduto a una tavola imbandita a criticare il divieto di assembramento anticovid emanato dal governo, eccolo sfrecciare in monopattino per criticare gli incentivi sulle due ruote approvati del governo, eccolo con giubbotto salvagente, casco e remi per protestare contro la marea di parole del governo, eccolo spaccare le zucche di Halloween per protestare contro la festa pagana sdoganata dal governo, eccolo vestito con paletta e fischietto per criticare i controlli occhiuti sulla movida predisposti dal governo… insomma, una sorta di vignetta umoristica umana (contro il governo), fatta avendo in tasca la tessera da giornalista che fu anche di Montanelli, e avendo in testa la verve comica che fu anche di Ciccio e Franco.
La tv che costa poco non riesce più ad affascinare e a far sognare, quindi per attrarre deve fare scalpore: tornerà prima o poi il tempo in cui a fare scalpore saranno la serietà delle domande e la profondità delle risposte.
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