Nel 2015 le asciutte parole della Laudato si’ mi stupirono. In nome della difesa della bellezza del creato, Francesco si fece carico del mondo non per guidarlo, ma per chiamare i cristiani a cooperare con chiunque si impegnasse per il futuro del pianeta, riconobbe nei non credenti e non praticanti i portatori di propri valori culturali, spirituali e morali e invitò tutti a scendere come lui dalla cattedra. I fondamenti scientifici addotti, le esperienze di impegno sociale evocate e le urgenti istanze di cambiamento invocate, diedero nuova energia a chi già si spendeva per l’ambiente e per uno sviluppo orientato all’equità e non al profitto. Dopo due papi integralisti che, con la loro invadenza politica, avevano preteso di imporre a società pluraliste i loro dettami morali, Francesco fu un alito di vento nell’afa estiva. L’incipit della Fratelli tutti va oltre: i valori cristiani si manifestano con atti di sottomissione verso chi non condivide la propria fede, come fece Francesco d’Assisi incontrando il sultano Malik-al-Kamil in Egitto nel 1219. È bizzarro che molti delegittimino un pontefice non invadente accusandolo di fare politica.
Francesco riconosce che la Laudato si’ peccò di ottimismo. Fu letta da qualche leader religioso e ascoltata da politici distratti ma non raggiunse gli Stati Uniti, l’America Latina, Medio Oriente, Asia e Africa. L’enciclica ebbe un impatto solo nell’opinione pubblica già preparata dell’Europa occidentale. La speranza che un papa autorevole, sincero e alieno da proclami potesse smuovere i potenti della terra e favorire la giustizia sfiorì. I populismi, i regimi autoritari e i grandi e piccoli decisori che seguono il monoteismo del dio Mercato vanificarono l’appello o finsero di raccoglierlo. Non ci sono stati gli effetti sperati.
La Fratelli tutti prende atto delle resistenze incontrate dalla Laudato si’ e tenta di contrastarle appellandosi alla fratellanza, all’amicizia sociale e all’agire insieme. La diagnosi papale dei mali del mondo è oggettiva ed esplicita, ma la pars construens, anche quando luminosa e circostanziata, resta debole. Manca un anello: non è un limite di pensiero o di intenti, è un guasto – forse irreparabile – nell’ordine delle cose.
Il mondo attuale, nota Francesco, difetta di visioni, speranze, progetti e impegni reciproci. Dobbiamo cessare i soprusi contro la natura, ridare senso alla vita, generare equità e inclusione grazie allo sviluppo tecnologico. Economia e mentalità diffuse si combinano in modo perverso. Il comune pensare, dominato da un paradigma insostenibile di crescita e dalla pervasiva dittatura del mercato e del consumo, è ormai logoro. L’economia globale impone un modello culturale unico, “unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni”. Un ordinamento fondato sul profitto, ingiusto e discriminatorio, riduce le persone a oggetti e merci, seleziona solo ciò e chi serve e getta o consuma ciò che e chi non serve all’idolatria della ricchezza. Scarto e spreco creano nuove povertà, lavoro senza diritti, razzismi, fragilità. Il mito della crescita impedisce uno sviluppo umano integrale. I diritti non sono uguali per tutti e le donne sono le prime vittime. La crescita premia oligarchi e ristrette aree privilegiate, ma trascina anche i ceti più esposti nel gorgo degli egoismi. La non inedita convergenza dei privilegi di pochi con i risentimenti di molti, tra macro e microegoismi, si manifesta nei nazionalismi e nei populismi, chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi.
La società globale avvicina ma non affratella. Ne deriva una miscela di massificazione e atomizzazione che colonizza i comportamenti, privilegia gli interessi individuali, riduce le persone a consumatori e spettatori e “indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza”.
L’allegra superficialità dominante non attutisce l’infelicità e l’insoddisfazione. Due sono le spie di questa società del malessere: la perdita di memoria e l’aggressività digitale. Le conquiste delle generazioni precedenti non si tramandano, non moltiplicano i loro effetti benefici e svaniscono: andrebbero riconquistate ogni giorno, ma i più vedono solo l’immediato. Il senso della storia, necessario per trasmettere le esperienze, sembra liquefarsi. La tenue conoscenza del passato non indica più dove stiamo andando e dove non dovremmo andare. A sua volta, la prigionia nel mondo virtuale priva miliardi di persone di autentiche relazioni umane. “C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana”, ma il “noi” digitale restituisce un sentimento tribale esasperato dall’odio e dallo stigma, un fanatismo da cui nemmeno i cristiani sono immuni. Per non finire sordi e ciechi dovremmo perseverare nella conversazione pacata e nella discussione appassionata, con le fatiche e le sofferenze che ciò comporta. La saggezza si conquista, non si scarica da internet.
Le distanze aumentano e il cammino verso un mondo unito e più equo arretra. La pandemia prova quanto gravi siano le nostre povertà. Il virus seguita a mietere vittime, ma molti hanno già dimenticato la lezione e i dolori patiti. Siamo interdipendenti, non ci salviamo da soli, ma le nuove mentalità collettive, le nuove prospettive esistenziali e comunitarie e i nuovi stili di vita restano un auspicio.
“I sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi”. L’isolamento prevale sulla vicinanza, lo scontro sull’incontro, l’egoismo individuale sulla vita comune. Queste ossessioni determinano una crescita infelice. “Il colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni. Ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato risultati rapidi e sicuri e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia. Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà”. Nei paesi poveri il web genera sudditanza, carenza di autostima e imitazioni consumistiche subalterne e irriflesse.
La reazione peggiore è l’ulteriore caduta “in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica”. La competizione per i consumi in nome del “Si salvi chi può” ci porterà alla guerra di tutti contro tutti. Le cause delle migrazioni e le reazioni che suscitano rendono tangibile questa guerra. Già ora i primi a pagare sono i più deboli. Le “vite lacerate” dei migranti sono lasciate affondare.
Francesco interpella la politica, come già la Rerum Novarum o la Pacem in terris. Ma è lecito chiedersi: come potrà il cristianesimo rigenerare una politica ovunque infeconda, arida e sterile, se chi governa è sordo e chi si oppone spesso anche? La religione è una potenziale risorsa aggiunta, ma può poco. Non mancano analisi e visioni, mancano politici che le studino. La politica istituzionale non genera buone pratiche. E chi fa buone pratiche non governa, se non localmente. Se ha fortuna fa la fine di Greta: tutti fingono di ascoltare, poi se ne fottono. Anche Francesco parla nel deserto.
Il cristianesimo, già gravato da due millenni di storia, è parte di un mondo secolarizzato: la sua profetica aspirazione a redimere l’umanità, che con Francesco riaffiora, non ha spazio. Una denuncia impietosa si stempera in un’esortazione a sperare oltre il dovuto pessimismo. Purtroppo non basta invocare l’audacia della speranza, l’amicizia sociale e il radicamento nelle comunità. La fraternità e l’amore universale non hanno la forza che ha animato i movimenti politici in nome della libertà e dell’uguaglianza. E il senso di comunità – di per sé indefinibile e scivoloso – non elimina lo sradicamento sociale. Il richiamo ai fondamenti della vita cristiana – l’amore, l’oblatività, la prossimità, l’impegno solidale, la generosità di sé, l’apertura agli altri – non ha presa politica, e non risveglia i molti, credenti e non, dal disincanto passivo. Purtroppo non saranno i mutamenti nella sfera emotiva, affettiva e comportamentale a rimettere a posto un mondo malfatto e malmesso. Il disincanto attivo non è rassegnazione o paralisi: aiuta a riconoscere i limiti del proprio agire senza gingillarsi in esercizi retorici. Siamo sulla soglia del pericolo estremo. Le speranze non nascono dai sogni ma dalle tenebre della disperazione. Non la speranza come disposizione d’animo, ma un saggio e razionale pessimismo potrà forse permetterci di salvare la barca. Mi domando: quanto a fondo dovremo scendere per essere costretti a cambiare rotta?
La mia è la sensazione, forse superficiale, di uno scettico disillusionista che non ama l’enfasi, i grandi enunciati, esortativi, ottativi e imperativi. La consapevolezza che l’umanità è un legno storto è il fuoco interiore degli spiriti liberali. Il disincantato operoso non vuole stare con le mani in mano dentro una camera senza vista, ma agire in modo cooperativo e responsabile con obiettivi limitati che prefigurano grandi e silenziose correzioni di rotta. La brodaglia sciapa, decomposta e maleodorante del moderatismo è il residuo di una leggenda suburbana. Il tempo ha fretta. Solo dei radicali mutamenti molecolari potrebbero restituire a credenti e laici non fanatici la possibilità di migliorare la vita di tutti, partendo dal basso, dagli studi, dai lavori e dalle tutele sociali, e di salvare quel che resta del suo habitat devastato.
Questo già pensavo – localmente – nel 2015. Nella mia insignificanza (che è di tutti, immodesti, vanesi, ambiziosi e trombati inossidabili inclusi), l’impegno amministrativo non è stato utile come speravo. Altri, se in condizioni più favorevoli, potranno riprovarci, purché in un cooperare tra pari, senza tronfi sabotatori e grigi esibizionisti, con una squadra coesa e con un allenatore miracolosamente convertito a un gioco inventivo, frizzante, audace e ricco di schemi originali. Dubito che l’inerzia del politicismo (partitico o civico che sia) si possa correggere. Ma dobbiamo provarci. Ai tre principi – disperazione, responsabilità, speranza – di altrettanti grandi pensatori del secondo ‘900, Anders, Jonas e Bloch, aggiungerei sottotraccia il principio ostinazione di De André.
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