Il lungo filo della memoria non si è ancora dipanato e tuttavia mi ricorda che ho vissuto frammenti di storia che oggi volentieri racconto ai nipoti.
Avevo da poco compiuto quattro anni: era il 1944. Una notte d’inverno – col coprifuoco e i nazisti in furore – un cugino di mio padre si presentò al nostro uscio, chiuso a sei giri di chiave. Domandò rifugio e protezione. Mia madre disse nello spazio di un attimo: “Viene! Entra!”. Due anni addietro aveva risalito le montagne dell’altopiano per unirsi ai partigiani ed ora era ricercate dalle brigate nere. Si trovò per lui un nascondino nel solaio, da dove avrebbe potuto dileguarsi uscendo da un abbaino e attraversando i tetti. A me era stato raccomandato più volte di non dire a nessuno che ospitavamo a casa uno sconosciuto.
Pochi mesi dopo, a suonare il campanello di casa fu il parroco. I miei lo fecero accomodare nel tinello. Noi fummo invitati ad uscire e la porta si chiuse. Sentimmo confabulare. Alcuni giorni dopo in casa trovammo un secondo ospite. Vicino a noi, in una dimora signorile, vivevano le signorine Dolfin, verso cui mia madre nutriva un premuroso rispetto: un loro fratello era un alto gerarca fascista. Il parroco, che evidentemente era all’oscuro dell’asilo dato al cugino di mio padre, era venuto a chiedere un nascondiglio per questo alto funzionario fascista, il quale aveva compreso che le bandiere stavano per mutare dal nero al rosso e voleva salvarsi la pelle dandosi alla macchia perché braccato dai partigiani. E così i “pensionanti” divennero due: uno dormiva e dipingeva in solaio, l’altro occupava una stanza che fino ad allora era adibita a ripostiglio e leggeva tutto il giorno. Condividevano la nostra tavola, anche se si guardavano in cagnesco. Dai discorsi che facevano, capivo che tutti e due erano nemici: uno arringava l’altro con parole che sapevano di rivoluzione, di poveri, di lavoratori, di comunisti, non cercava tregua nell’assicurare la vittoria finale. L’altro svelava tutti i traditori: i tedeschi, il re, gli italiani ingrati. Alternavano queste discussioni con partite di scopone a cui si univano mio padre e mio fratello. A me era simpatico il primo: era giovane e mi insegnava a fischiettare. Mia madre era apparentemente serena e mio padre nel sentire il discorso dei due scuoteva la testa. Una notte, il fascistone partì, in segreto, com’era venuto. Solo a liberazione avvenuta, dopo alcuni anni, seppi che fu scovato dai partigiani, nascosto tra le poltroncine del vicino cinema parrocchiale.
Su quelle illusioni cadute fiorì la speranza perché maturata nell’impegno comune della ricostruzione. Fu in quei tempi che, seppur ragazzino, imparai a vivere l’impegno acquisendo la conoscenza del momento e praticando ciò che la scuola mi insegnava, ricalcando anche gli sforzi e l’esempio di mio padre che aveva ripreso il lavoro nella sua bottega di falegname: scuola e lavoro furono le colonne fondanti della ricostruzione.
Più tardi acquisii la conoscenza della storia, cercando di apprendere con più attenzione la misura di valutazione critica per leggere quei momenti, abbandonando però la passionalità e la partigianeria degli adulti. Furono gli anni che mi insegnarono come la vita dovesse acquistare sempre più una portata sociale.
Oggi, per esigenze politiche, per propaganda di parte, sembra che la storia abbia perso il suo valore di chiarificazione e sarebbe giusto e doveroso che i giovani tornassero a meditare sulla storia per non perdere il “[suo] senso”, fenomeno che provoca ulteriore disgregazione”, sostituendolo con “il bisogno di consumare senza limiti” e combattendo “ l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti”: così papa Francesco nella lettera “Fratelli tutti…” E continua: “le ideologie di diversi colori, che distruggono tutto ciò che è diverso… in questo modo possono dominare senza opposizioni la storia… che è stata tramandata attraverso le generazioni che ignorano tutto ciò che li ha preceduti”.
Agli inizi della sua enciclica, Papa Francesco indica già tre mali da condannare alla luce di una coscienza storica: la disgregazione che porta all’individualismo, il consumismo, le ideologie disumane.
L’individualismo ha ammorbato le coscienze. Anche in questo tempo di pandemia, durante il quale sarebbe più che necessaria un’intensa unità di pensieri, di intenti e di sforzi comuni, si notano tentativi di disgregazione: negazionisti contro scienziati, stato centrale contro regioni, pseudo-politici che urlano contro politici che tentano di spiegare, di chiarire. Abbiamo perso la ricchezza delle relazioni umane. L’ “io” prevale sul “noi”. Eppure la fragilità ci dice che abbiamo bisogno degli altri, la paura ci impone di dire una parola buona a chi è nel lutto, la disperazione ci chiede una maggiore solidarietà, se non uguale almeno simile a quella dei medici, degli infermieri, dei volontari che si prodigano per dare un aiuto senza il quale la vita diventa un peso. Ed è questo individualismo che porta alla solitudine.
Anche in questi momenti l’economia prevale su valori essenziali. Sono ben più importanti mammona, la ricchezza idolatra, feticcio dell’avere, malabestia che corrompe il sentire, catena a cui sacrificare ogni impeto, dittatura del guadagno sulla condizione umana che pure avrebbe le ali e vorrebbe slanciarsi. In questi giorni occorre fare di tutto per salvare le imprese che creano lavoro e occupazione. A coloro che per anni ci hanno insegnato a consumare nel superfluo, a dirci che vivere vuol dire andare in palestra anziché fare una scalata in montagna o una pedalata, a godere per essere, a cautelarci contro la vecchiaia frequentando i centri benessere l’invito ad attendere tempi migliori, ad avere pazienza, la stessa pazienza che hanno i malati degenti negli ospedali e che non si stancano di avere fiducia nell’attesa della guarigione.
Questo tempo è preda del fanatismo, dell’arbitrio e della forza di malsane ideologie che si fondano sull’inimicizia, sull’odio, sul rancore, sull’invidia, sulla vendetta. Esse vengono amplificate dalle stupidaggini di certi programmi televisivi e dalle opinioni sballate anche attraverso i social. Si ostenta la cattiveria e si deride il bene, non ci si vergogna neppure più di fronte al male che si è compiuto, si combatte l’avversario fino al punto di farlo sparire e annientare. Talvolta sono gli stessi responsabili della cosa pubblica che sfruttano la loro posizione di potere. Costoro, inoltre, sdoganando parole e comportamenti fattivi di avversione, semplificano le idee con la banalità e la rozzezza che fanno sentire l’uomo della strada vicino a loro.
Partire dall’uomo frantumato, disperso e arrivare, giorno per giorno, pazientemente, a costruire l’uomo nuovo è l’itinerario disagevole e affascinante per tutti gli educatori. Le posizioni antisociali e assurde non hanno ragione di essere, così come pure certe posizioni capitalistiche dovrebbero sembrare ridicole. La politica dovrà scrollarsi di dosso la polvere posata sui suoi sandali e riprendere alacremente lo stupendo mestiere del servizio: tre piccole mete che papa Francesco indica a tutte le donne e uomini che pur non essendo battezzati hanno un cuore che non tollera le sofferenze altrui, hanno pietà e commiserazione, si adoperano per il bene di tutti. I cristiani non hanno alcun monopolio nel fare il bene.
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