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Opinioni

NON ASPETTARE GODOT

ROBERTO CECCHI - 23/10/2020

Il MoSE a Venezia ed il Castello di Belforte

Il MoSE a Venezia ed il Castello di Belforte

Ora che è entrato in funzione regolarmente, se ne può parlare con una certa serenità. Prima no, perché non si sapeva neanche se lo avrebbero mai finito. E tantomeno, se avrebbe funzionato. Parlo di Venezia. Parlo del MoSE (Modulo Sperimentale Elettromeccanico). Parlo di quella protezione di colore giallo canarino, appena inaugurata, che chiude temporaneamente le tre bocche di porto della Laguna (bocche di Lido, di Malamocco e di Chioggia) che tengono in comunicazione Venezia col mare aperto. Sono quattro barriere mobili, ma non vanno chiuse tutti i giorni, perché bisogna garantire il funzionamento del porto commerciale e di quello turistico e, poi, perché vanno lasciati sostanzialmente inalterati gli scambi medi tra Laguna e mare, per evitare che il Bacino di San Marco e tutto quanto il resto diventino uno stagno maleodorante (il naturale ricambio d’acqua tra Laguna e mare vale circa 4 milioni di mc/giorno).

È una barriera fatta di 78 cassoni di metallo di lunghezza variabile (tra i 18 e 29 metri ciascuno) che generalmente stanno adagiati sul fondo del mare, affondati dall’acqua che contengono. Quando accade, invece, come qualche giorno fa, che le previsioni indichino la possibilità di inondazioni, l’acqua dei cassoni viene spinta fuori a forza e i cassoni iniziano a galleggiare, formando quella barriera che impedisce al mare di entrare in città e raggiungere anche altezze considerevoli, con danni irreparabili per l’economia e per il patrimonio culturale.

È l’ultima battaglia di Venezia contro l’acqua, città che è nata con l’acqua e sull’acqua, come ci ricordano le parole di Cassiodoro di quindici secoli fa “Qui voi avete la vostra casa simile in qualche modo ai nidi degli uccelli acquatici. E infatti ora appare terrestre ora insulare, tanto che si potrebbe pensare che esse siano le Cicladi, dove improvvisamente si può scorgere l’aspetto dei luoghi trasformato. In modo simile le abitazioni sembrano sparse per il mare attraverso distese molto ampie, ed esse non sono opera della natura, ma della cura degli uomini” (VI sec. d.C.).

E Venezia ha fatto dell’acqua la sua forza, perché, grazie a questa sua particolare natura insulare, in antico ha combattuto agevolmente i tentativi di invasione, rimanendo sufficientemente isolata dalla terraferma (il lungo Ponte della Libertà è della metà dell’Ottocento); ha deviato fiumi per evitare che la Laguna s’interrasse a causa dei loro residui; ha costruito le fondazioni delle case su palafitte; poi, ha rialzato il piano di calpestio dei bordi delle insulae, finché è stato possibile farlo, come dimostrano le colonne di Palazzo Ducale, che nei secoli son state sostituite più d’una volta, facendole sempre più basse, dovendo rialzare la pavimentazione di fronte al Bacino di San Marco. Insomma, la città, nei secoli, si è distinta per la capacità di inventarsi soluzioni grandi e piccole contro l’acqua e per di più salata. Interventi minuti e intelligenti. Oggi diremmo che si è costruita e salvata curando costantemente la manutenzione ordinaria del suo territorio.

E allora perché, stavolta, non è stato possibile fare le stesse cose che in passato? Perché c’è stato bisogno d’un’opera tanto imponente, difficile, dispendiosa (con inevitabili strascichi giudiziari)? La realtà è che non si poteva perché la situazione era arrivata al limite, era stata portata ad un punto di non ritorno per due ragioni molto precise. La prima è di carattere generale, planetario, e riguarda la crescita del livello delle acque, dovuta al riscaldamento terrestre che scioglie i ghiacci e rialza i mari (eustatismo) e dunque, anche quello della Laguna. La seconda, è che l’’“acqua alta” a Venezia (funzione della componente astronomica e della componente metereologica) è dovuta soprattutto ad un fenomeno locale che risale agli anni ’60, quando si manifestò un brusco abbassamento del suolo, dovuto all’emungimento di grandi quantità di acqua per scopi industriali (soprattutto chimici dell’area di Marghera), che hanno determinato un cedimento di circa 14 cm. del terreno della Laguna (bradisismo negativo). Appena interrotto il pompaggio dell’acqua, il fenomeno si è arrestato ed anzi, c’è stato un certo recupero di quota del terreno (un rilascio elastico positivo). Ma ormai il danno era fatto. E a questo punto, la soluzione non poteva essere altro che quella di creare uno sbarramento come è stato fatto.

E quindi che dire? Prima di tutto che si tratta di un capolavoro dell’ingegneria e dell’idraulica, un’opera di grande intelligenza, come spesso accade di fare a questo Paese, quando si trova alle strette. Non ci sono precedenti del genere, neanche nei Paesi Bassi – non a caso -, dove pare che ne sappiano parecchio al riguardo. Ma va anche detto che se il problema fosse stato preso per le corna per tempo, non saremmo arrivati a tanto. Sarebbe bastato poco per evitare un guasto del genere (ma erano gli anni della ricostruzione del secondo dopo guerra e certamente non si andava troppo per il sottile). Sarebbe bastata un po’ d’attenzione al territorio, come per qualsiasi altra cosa, dalla prevenzione anti-sismica al dissesto idrogeologico. Senza prevenzione prima o poi si arriva a punti di non ritorno (il Ponte Morandi è un altro caso di questo tipo), e quindi alla necessità di fare interventi urgenti, complessi, costosi. E dolorosi, perché con operazioni del genere qualcosa si guadagna, ma si perde anche tanto.

Bisogna evitare di tirare la corda fino a trovarsi di fronte a situazioni irreparabili. Abbiamo il tempo e gli strumenti per farlo, ovunque e per qualsiasi cosa. E allora, sarebbe proprio l’ora di dare una sistemata al Bel Paese e, per fare un esempio non a caso, la regione più ricca e più attrezzata potrebbe metter mano al portafoglio a partire dal Castello di Belforte a Varese. Un documento considerevole della storia d’impianto alto medievale, accostato al mito del Barbarossa, che da troppi anni si trova in uno stato di profondo degrado e mostra seri pericoli di dissesto strutturale. È abbandonato e l’Amministrazione comunale non ha risorse proprie per interventi del genere (una ventina di anni fa furono trovati fondi per le coperture). Prima o poi, quello che già adesso non è più un semplice problema di manutenzione ordinaria, evolverà verso uno stato di degrado sempre più severo. Si arriverà, anche qui, ad un punto di non ritorno e allora dovremo assistere al solito teatrino. In quattro e quattr’otto, bisognerà convocare comitati, trovare esperti, fare progetti e scovare risorse. Dare le colpe e trovare le scuse. Tanto di tutto. Vogliamo proprio aspettare che arrivi Godot? Meglio di no. Un MoSE basta e avanza.

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