(C) Voglio provocare una vostra riflessione a partire da una notizia un po’ strana, ma suggestiva. Ve la riporto integralmente.
“Quando combatti una lotta di liberazione, la tua persona non ha più importanza. È l’interesse collettivo che viene prima di tutto, non quello della singola persona”, dichiara ad Huffpost Emery Mwazulu Diyabanza, il ladro-militante che restituisce ai paesi africani le opere sottratte dall’occidente durante il periodo coloniale. Ora dovrà pagare una piccola multa di 1.000 euro. Rischiava 10 anni di carcere e invece i giudici di Parigi hanno chiuso un occhio davanti a quello che secondo la legge si tratta di un furto in piena regola. Ma non chiamatelo ladro. Per Emery, al contrario, il suo è un vero e proprio “atto politico”, dietro il quale si nasconde “la lotta per la liberazione della nostra Africa da ogni forma di influenza e di dominio”. La sua battaglia non finisce qui: “ricorreremo in appello” contro quello che considera nient’altro che “uno Stato prevaricatore”: la Francia.
Diyabanza fa parte del collettivo panafricano Unity, Dignity Courage. Un gruppo di attivisti che fa pressione sui paesi occidentali affinché questi pongano rimedio ai soprusi compiuti nei confronti delle ex colonie africane. Tra questi c’è il Congo, il paese d’origine di Emery, per anni sotto il dominio dello Stato francese e belga. Anni in cui i congolesi – al pari di tutti gli altri Stati controllati dall’occidente – dovettero assistere al furto delle proprie risorse, economiche e culturali, a beneficio degli europei. I paesi subsahariani, infatti, furono spogliati degli oggetti legati alla tradizione: buona parte dei reperti storici e delle opere d’arte furono espatriati e ospitati nei più importanti musei d’occidente. Ora l’obbiettivo di Emery è quello di riportarli indietro, di restituirli a quelli che considera legittimi proprietari, anche a costo di forzare la legge. L’attivista infatti deve affrontare due processi, uno a Parigi e l’altro a Marsiglia. “Questo – dice riferendosi alla giustizia francese – non è altro che il comportamento di uno stato prevaricatore”.
Senza pistola e passamontagna, si presenta a viso scoperto nei musei occidentali per prendere ciò che apparteneva all’Africa in epoca pre-coloniale. Rifiuta di essere etichettato come “un ladro”, e lo fa azzardando anche un paragone con Nelson Mandela. “Anche lui fu definito come un terrorista e qualche anno dopo vinse il premio Nobel per la pace”. Così Emery ribalta la prospettiva: considera un furto quello portato avanti dai paesi Europei, non di certo il suo. Per lui, al contrario, non è altro che il tentativo di riappropriarsi di ciò che è stato portato via con la forza: la stessa a cui accenna, agguantando i manufatti africani con l’obbiettivo di riportarli indietro.
Lo stato francese, del resto, ha più volte promesso la restituzione delle opere d’arte appartenenti alle ex colonie, “manovre dilatorie”, secondo l’attivista. Quando invece sarebbe necessaria “la restituzione ora e senza condizioni del nostro patrimonio”.
(S) Adesso anche tu dalla parte del terrorismo culturale anti-europeo? Della CANCEL-CULTURE, che non abbiamo abbastanza contrastato?
(O) Ho anch’io un giudizio negativo su questa azione. Penso che certe testimonianze di arte e cultura africane, una volta riportate nel paese d’origine non avrebbero lo stesso valore di conoscenza, non sarebbero viste, per così dire usate, in un modo altrettanto significativo. Anche per un dialogo interculturale stanno meglio qui. Però potrebbero esserci iniziative culturali, per così dire incrociate: far conoscere agli europei il vero valore culturale e non solo etnografico di opere africane e portare in Africa, cosa mai accaduta, le grandi mostre dei maestri dell’arte europea.
(S) Piuttosto prendete atto da quale fonte arriva e fino a quale livello di profondità penetra questa falsa coscienza delle colpe dell’uomo bianco, occidentale e cristiano, in questo caso si tratta del New York Times. Tempo fa leggevo anch’io regolarmente l’edizione digitale del NYT, poi mi sono stancato, come mi sarei stancato di leggere la Pravda dei tempi andati. Dobbiamo la segnalazione al ‘Foglio’. Ecco: “Quando ha iniziato a circolare la notizia della decapitazione di un uomo nella periferia nord di Parigi (era il prof. Samuel Paty) da parte di un uomo (era un ragazzo, Abdullakh Anzorov, di origini cecene) armato di coltello, il New York Times ha titolato: “La polizia francese ha sparato e ha ucciso un uomo dopo un attacco mortale con un coltello in strada”. Un pochino dopo, quando si è capito che non si trattava di un “attacco con il coltello” ma di un rito di decapitazione in nome di Allah, il New York Times ha modificato il titolo: “La polizia francese ha ucciso un uomo che ha decapitato un insegnante per strada”. (grassetto del testo originario).
“Chi ha decapitato il professore vuole distruggere l’occidente ebraico, cristiano, ateo e democratico”. Parla la filosofa francese Renée Fregosi. “Non rassegniamoci alla sconfitta”
Samuel Paty è stato massacrato e decapitato da un giovane ceceno perché aveva mostrato le caricature di Maometto in occasione di un corso sulla libertà di espressione, durante il processo sugli attacchi del 2015 contro Charlie Hebdo, colpendo così un testimone della scuola laica, rappresentante del pensiero critico”.
(O) Tutto questo mentre Papa Francesco pubblica l’enciclica “Tutti Fratelli”. Adesso ci prenderanno anche noi per utopisti, da destra e da sinistra, dall’Europa, dall’Africa e dall’America.
(C) Proprio l’enciclica ci suggerisce invece il criterio per non cadere in questa logica di contrapposizioni estreme. Una sua lettura più attenta ci potrebbe mostrare che il Papa non è un illuso utopista e che è ben consapevole delle difficoltà del compito. Perdonatemi la lunghezza di questa citazione, del teologo p. Francesco Braschi, (da Il Sussidiario del 19.10) “Si incontrano spesso, nel testo dell’enciclica, espressioni con le quali papa Francesco sembra voler prevenire una possibile critica nei confronti dei contenuti proposti. Così al c. 16 troviamo: “Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l’umanità oggi suona come un delirio”; al c. 30: “…il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi”; al c. 127, proponendo una logica collaborativa per le relazioni internazionali: “Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie”; al c. 180: “Riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie”; al c. 190, parlando della carità politica che deve spingere a un’apertura verso tutti: “Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo”; e, infine, al c. 262, mettendo a tema l’orrore della guerra, leggiamo: “Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace”. (corsivo nel testo originario).
(S) Cosa vuoi dire con le tue due citazioni e come rispondi alla mia domanda sulla svalorizzazione della civiltà occidentale da parte della corrente dominante degli intellettuali liberal?
(C) La risposta sta proprio nell’enciclica e in una sua lettura né politica né utopistica. Non leggiamola con un pregiudizio illuministico, come se la ragione fosse contrapposta alla fede e l’economia alla carità e troveremo in essa non la difesa ma l’esaltazione della civiltà occidentale, fiorita da radici cristiane. Anche in questo caso si tratta di considerare le ‘ periferie’, i loro abitanti, le loro culture, le loro risorse materiali e umane, da pari a pari. Semmai l’errore del Robin Hood africano è una cattiva interpretazione dell’affermazione identitaria, che emerge quanto più è messa a confronto con identità diverse. Sono i nostri Musei che non devono relegare le culture extraeuropee a oggetti di stravagante curiosità, confinati in musei etnografici, quando sappiamo quale fonte d’ispirazione siano state per l’arte moderna e contemporanea. Quanto all’attentato di Parigi e alla debole ed equivoca posizione del New York Times, l’origine è lo stesso fraintendimento del valore dell’identità, idolo per quel africano e per quel musulmano (non per la gran parte dell’Islam), ostacolo invece alla convivenza pacifica dei diversi, anziché occasione di reciproca valorizzazione, per un certo intellettualismo occidentale, afflitto da complessi colpa.
(O) Che cosa c’entra tutto ciò con la serie di Apologie dedicate alla città?
(C) La domanda è pertinente e opportuna. Non ho voluto perdere l’occasione di mostrare che questi avvenimenti sono un perfetto esempio di come sia necessario, quindi possibile, pensare e operare per il bene comune anche nel microcosmo di una città di provincia. Non possiamo aspettare di avere risolto i grandi problemi universali per affronta tare quelli che emergono sotto i nostri occhi. Per questo è indispensabile uscire dalla sicura difesa dei propri schemi mentali, per aprirsi alla meraviglia dell’incontro con il diverso. Questa mia riflessione vuole essere anche un tentativo di risposta all’invito del prevosto di Varese, Mons. Panighetti, apparso qui la scorsa settimana, per un’apertura di dialogo sui temi proposti dall’iniziativa LETTERA ALLA CITTA’. Quelli proposti finora, EDUCAZIONE, LAVORO, ACCOGLIENZA colpiscono nel segno problemi mondiali e problemi della nostra piccola area cittadina. Per questa ragione offro il mio contributo, oltre che con questa rubrica, come curatore-segretario di una nuova, che potrebbe appunto chiamarsi “Lettera alla città’, con lo scopo di suscitare un più ampio dialogo sui temi indicati.
Per semplicità si potrebbe iniziare dal tema EDUCAZIONE, come sollecitato dall’intervento qui pubblicato sul numero dell’ 11 settembre scorso nella rubrica ‘Lettere’. Non dovrebbe nemmeno essere necessario ripetere la disponibilità ad un dialogo a più voci.
(C) Costante (S) Sebastiano Conformi (O) Onirio Desti
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