Dalla fine dell’epoca democristiana molti sono stati i tentativi non riusciti di appropriarsi dell’eredità storica e culturale della Balena Bianca.
L’ultimo, in ordine di apparizione, come ha ben descritto la settimana scorsa Max Lodi, mi pare essere quello che va sotto il nome di “Insieme” e che ha, tra i suoi promoter, Stefano Zamagni economista di orientamento prodiano e da sempre vulcanico punto di riferimento di una vasta area di mondo cattolico italiano.
Ai tempi della Balena Bianca, in un libello interessante di un ancor giovane Marco Follini e intitolato “Arcipelago democristiano”, l’autore provava a descrivere non solo la geografia interna della Dc, ma anche la sua essenza e la sua anima plurale come elementi distintivi di un partito in grado di rappresentare più mondi vitali e più sensibilità culturali e politiche, certamente, a volte, in contraddizione tra loro, ma anche più spesso unite nell’impedire che, nel partitone cattolico, ci fosse il prevalere di un dominus. Come se i democristiani, per tempo, avessero ben presente in epoca non sospetta quello che sarebbe accaduto senza la loro saggezza politica. La personalizzazione della politica, leadership individualiste, eccentriche e intolleranti col dissenso interno e così via, tutti vizi deleteri che sono propri della cosiddetta seconda repubblica.
Fatta questa premessa proverei a descrive due ulteriori aspetti che ritengo propedeutici per il prosieguo del mio ragionamento.
Il primo. La Dc non è finita per tangentopoli, ma ha cessato di esistere perché sono venute meno le ragioni dello stare insieme dei democristiani.
Il secondo. Il mondo cattolico che era il riferimento naturale della Balena Bianca da anni e ben prima del 1992 aveva cessato di essere, non solo patrimonio di idee, ma anche bacino di classe dirigente a cui attingere. Insomma, la Dc è finita ben prima del fatidico ‘92 ed è finita per consunzione dei democristiani e perchè l’Italia era cambiata, con lei il mondo cattolico e perché gli italiani avevano deciso di non farsi più governare da un partito “mamma”.
Tra le ragioni della fine della Dc mi permetto di annoverare anche un ultimo elemento. L’introduzione del maggioritario.
La Dc non ha mai voluto il maggioritario nella sua storia perché ha sempre ritenuto che le istituzioni non avrebbero retto ad una contrapposizione dura tra due soli schieramenti. Così come, per la cultura Dc, il Paese era (ed è) troppo complesso per essere ridotto attraverso una mera semplificazione a due semplici parti politiche soprattutto perché temevano la reciproca delegittimazione come metodo di lotta politica. Non solo, i Dc sapevano bene che l’introduzione del maggioritario li avrebbe spinti indissolubilmente ad una scelta drastica. Trasformarsi, come del resto è avvenuto in Europa a tutti i partiti di ispirazione cristiana, in un partito conservatore, di centrodestra e, con la tradizione e con storia della Dc italiana questo avrebbe portato, come di fatto poi è avvenuto, ad una spaccatura inevitabile.
Ricordo questi aspetti non per nostalgia, ma perché in loro vedo le ragioni dell’improponibile proposta del nuovo partito “Insieme”, o meglio, rivedo l’ennesimo tentativo di dare vita ad una novità per interpretare un bisogno, un baricentro della politica, quasi mitizzato a dire il vero, del sistema politico, appoggiandolo, tuttavia, su presupposti deboli ed inefficaci.
Sempre proseguendo nel ragionamento e cercando di non scadere nel banale o nello scontato, partirei da una serie di ulteriori assunti frutto della lettura del pezzo di Lodi.
Il primo di questi è una semplice considerazione tutta da verificare.
C’è la necessità di avere la copertura di uno spazio politico che, in generale, si definisce centro nel nostro panorama politico?
E questo luogo un po’ mitico e un po’ geografico quanti voti può rappresentare?
Ora è evidente che noi abbiamo un panorama, anzi un affollamento attuale di questo luogo della politica.
Ma va sottolineato, tuttavia, anche una altro aspetto. L’affollamento è figlio del proporzionale, sistema che genera partiti identitari e offre spazi di manovra al centro, ma, tuttavia, un centro non più maggioritario (come lo fu la Dc), ma minoritario è destinato ad essere alleato, nella veste più nobile, di volta in volta, di uno dei due poli, o, in alternativa, ma è forse la possibilità che più si spinge verso la realtà, ad essere solamente vassallo alla ricerca di uno spazio di potere per gestire la propria utilità marginale.
E qui, aggiungerei, un ulteriore riflessione. Con un centrosinistra riformista ed europeista ed un centrodestra, molto destra, sovranista e antieuropeo come sarebbe possibile per questo ipotetico “centro” mettersi al servizio dei sovranisti?
E ancora, assunto che sono tutti federatori, ma alla prova dei fatti nessuno poi di questi partiti ha la forza per spingere gli altri a costruire qualcosa di nuovo insieme, ma solo a perseguire la strada dei cartelli elettorali in ragione della sopravvivenza di qualche carriera politica da mantenere al momento delle elezioni, quale prospettiva politica può avere un partito che intende far prevalere la sua anima “corsara” alla “Ghino di Tacco” di antica e mai dimenticata memoria da prima repubblica?
Insomma, io penso, temo che, ancora una volta, ci si trovi di fronte ad un ennesimo tentativo scollegato dalla realtà, una realtà, come sappiamo molto liquida e, all’ennesima riprova che per molti è più facile costruire, tentare di costruire un qualcosa di nuovo o presunto tale, che, piuttosto fare la fatica di lavorare all’interno di un contenitore già esistente per cambiarlo e migliorarlo.
E non è questa forse la ragione ultima della fine della Dc? Una volta venuti meno i motivi dello stare insieme, nell’arcipelago ognuno si è sentito libero di alzare la sua bandiera sull’isola che lo vedeva unico protagonista.
Chiudo questa mia riflessione con una convinzione. Il popolarismo sturziano è la più elevata, ambiziosa e ideale elaborazione politica compiuta dal cattolicesimo italiano.
Malgrado questa capacità di affascinare e dare una prospettiva ideale lungimirante e coerente, la sua esperienza in una organizzazione collettiva capace di tradurre in consenso elettorale le sue intuizioni e cioè il concretizzarsi in partito politico è stata fallimentare. La prima volta spazzato via dal fascismo, la seconda dall’impossibilità di vivere in una epoca dove i partiti erano personali e la società italiana attraversata carsicamente da valori lontani e distinti. Insomma, più che la testimonianza attraverso un organismo politico che forse rischia di essere memoria attuale del “gentilonismo” di epoca “giolittiana”, meglio la testimonianza individuale del patrimonio culturale di una gloriosa storia capace anche di essere seme e alimento per una politica diversa.
Roberto Molinari, Direzione Provinciale PD Varese
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