La vita acquista valore, raggiunge il suo scopo, nella misura in cui la si dona agli altri. Può essere paragonata ad un vaso che versa i suoi contenuti negli altri raggiungendo lo scopo del suo vivere, mentre un vaso che cerca solo di riempire sé stesso appare moralmente squallido e fallito.
Il vaso che dà, il vaso che prende: non è una immagine nuova, viene da antiche leggende.
In una nostra chiesa varesina un artista del secolo scorso ha rappresentato la Resurrezione ed in un angolo della scena ha messo un vaso, che forse per l’autore era il contenitore degli oli profumati con cui le pie donne avevano intenzione di cospargere il corpo del Cristo, – operazione che non si poté fare per via della festività del sabato ebraico incombente poco dopo la deposizione, per cui al corpo del deposto era stato impedito questo rito- ma il vaso è stato dipinto di una certa dimensione per cui può anche significare la vita del Cristo donata ai fedeli.
Tutti noi quotidianamente constatiamo l’esperienza del donarsi in numerose persone, come pure possiamo avere esperienze del contrario. È veramente consolante avere contatti con chi ti dà, talvolta tantissimo, mentre è conturbante venire in contatto, essere vittima di chi ti prende, di chi sa solo portar via, di “chi ti frega” come si usa dire. Resti con la bocca amara, sconfitto con nulla dentro. Diventa veramente difficile seguire l’insegnamento di saper perdonare, di saper voler bene. Istintivo invece il vendicarsi.
Senza raggiungere questi estremi, c’è anche la possibilità di non saper dare perché si concepisce il proprio lavoro, la propria professione solo come mezzo per avere lo “stipendio” per sé stessi. Il posto di lavoro finalizzato solo al freddo risultato della “busta paga”. Atteggiamento che riempie la vita di ragnatele, mortificazioni, scontentezze, mai gratificati da un lavoro inappagante, mentre il saper servire gli altri con la propria professionalità diventa il mezzo per migliorare l’esigente esistere di tutti, per dar sé stessi agli altri.
Consideriamo anche solo la vita di due innamorati: essa fiorisce fin quando si donano reciprocamente, diventa squallida, fallisce quando i due prendono per sé e va a finire che pretendono e basta. Anche il professionista che non sa vedere il suo operare in favore del “cliente (brutto termine)”, ma solo in funzione della “parcella (altro brutto termine), non brilla agli occhi della comunità; uccide il suo successo. Pure il semplice operaio se non sa vedere i vantaggi creati dal suo operare per la fabbrica, per la catena del lavoro, vive triste, perde capacità di auto gratificarsi, si sente inutile, vittima sfruttata.
L’esperienza quotidiana ci fa vivere talvolta un fenomeno più esasperato: vediamo numerosi soggetti, eterni disoccupati, incapaci di concepire il senso vero del lavoro, perché ai loro occhi qualunque attività non è in grado di remunerare la loro persona. C’è l’incapacità di vedere il lavoro come mezzo per realizzare la vita, per dare significato all’esistere. Ripeto: saper concepire “il mio lavoro è per gli altri”.
Attualmente stiamo vivendo una esperienza negativa con l’istituzione del così detto “reddito di cittadinanza”, il cui originario valore è stato minacciato e assai sminuito dal fatto di essere stato acquisito da troppe persone che non ne avevano il diritto. Molti dicono che il fenomeno era prevedibile ma c’è stata incapacità organizzativa per prevenire questa degenerazione. In altre nazioni europee c’era da tempo una simile organizzazione, non realizzata con la pubblicizzazione politica nostra, ma più efficace perché riesce a dare una risposta reale al problema della disoccupazione e delle esigenze del mercato del lavoro, mercato molto più florido in quelle regioni rispetto alla nostra penisola.
Uno dei difetti della istituzione italiana è stato appunto il cadere nella concezione del ‘posto’ di lavoro solo come fonte di reddito e non come mezzo significativo della vita dell’individuo e della società. Il fenomeno che abbiamo appena evidenziato è stato addirittura istituzionalizzato, creando soggetti mantenuti e assolutamente non attivi.
Viviamo però anche una bella esperienza: al contrario di quelli che prendono, che addirittura pretendono, abbiamo fortunatamente tanti generosi volontari che donano, che offrono il loro operato al prossimo. Persone che diventano veramente preziose in certi frangenti dell’esistenza ma spesso anche nella banalità della vita quotidiana, come l’assistenza ad anziani, bambini, ammalati.
Nel mondo della famiglia c’è la grande esperienza dei “caregiver”: il familiare cioè, frequentemente una donna, che dedica tutto il suo tempo ad assistere congiunti invalidi, sacrificando interessi personali di professione o di studio, ma anche di reddito.
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