La storia d’Italia sembra costellata di misteri. Numerosi (forse troppo) sono gli avvenimenti del passato, remoto o più recente, torbidi o dolorosi, che non hanno trovato risposte, su cui non è stata fatta mai piena luce, i cui responsabili sono restati ignoti. Delitti, stragi, caffè avvelenati, tentativi di colpi di Stato, morti sospette e inspiegabili, segrete logge massoniche, suicidi inattesi o impossibili, intrighi tra mafia, politica e gerarchie ecclesiastiche… A questo ricco materiale si rivolgono solitamente coloro i quali amano praticare esercizi dietrologici e quegli scrittori, che coltivano intrecci polizieschi e investigativi mescolando cronaca e immaginazione (oggi, sulla scorta del Truman Capote di A sangue freddo, anche da noi si usa definire quel «misto di storia e di invenzione», di cui parlava il vecchio Manzoni, «non-fiction novel»).
Sul finire di questa estate, una passeggiata al cimitero monumentale di Milano ha riportato alla mia memoria un evento quasi del tutto dimenticato. Vi ero andato, per ripercorrere il campionario di sculture (ovviamente funerarie) di Adolfo Wildt, uno degli artisti italiani più interessanti del primo Novecento (alcune sue opere possono essere ammirate in questi giorni anche a Varese nella bella mostra “Nel salotto del collezionista. Arte e Mecenatismo tra Otto e Novecento”, presso il Castello di Masnago). Nove sono le sepolture milanesi impreziosite dalle realizzazioni di Wildt. Tra queste, vi è il monumento dedicato a Benvenuta Ravera, di 35 anni, ai suoi due figli, Gian Luigi e Rosina, di 5 e 8 anni, e ad un suo nipote, Enrico, di 13. I quattro persero la vita nello stesso giorno, insieme ad una ventina di altre persone (alla fine, si contarono ventotto morti e decine di ferite). Furono tutti vittime della strage consumatasi a Milano il 12 aprile del 1928.
Quel giorno, a dieci anni dalla fine della Grande guerra e quando ormai il fascismo sembrava aver “normalizzato” la situazione politica interna, a Milano c’era aria di festa:la Fiera Campionaria sarebbe stata inaugurata alla presenza del re Vittorio Emanuele III.
Il corteo reale, partito dalla Stazione Centrale, aveva attraversato Piazza Duomo e si era diretto verso Piazza Giulio Cesare. Su questa vasta area era stata aperta, l’anno precedente, la nuova porta della nuova Fiera e, per l’occasione, era stata realizzata, in tempi rapidissimi, da Renzo Gerla, la monumentale Fontana dedicata alle Quattro stagioni.
In quegli anni, dal 1926 al 1928, podestà era Ernesto Belloni, il primo podestà di Milano. Sotto la sua amministrazione, il deficit di bilancio della capitale lombarda crebbe enormemente così come crebbe altrettanto vistosamente la sua ricchezza personale. Roberto Farinacci, attraverso il suo giornale «Il Regime fascista», accusò pubblicamente Belloni di malversazioni. Il podestà, amico di Arnaldo Mussolini e di Augusto Turati, all’epoca segretario generale del Partito nazionale fascista, denunciò il ras Cremona. Ma i giudici dovettero assolvere quest’ultimo, in quanto durante il processo aveva provato «la verità dei fatti attribuiti […] al prof. Belloni». Belloni fu poi espulso dopo dal partito e condannato a cinque di confino.
Nell’attraversare la città, il re aveva ovunque incrociato folle festose ed esultanti. Poco prima che il corteo reale giungesse in Piazza Giulio Cesare, alle 9:50, all’altezza del numero civico 18, esplose un ordigno collegato ad un congegno ad orologeria e nascosto in uno dei lampioni. Lo scoppio era stato fragoroso. All’esplosivo erano stati aggiunti pezzi di metallo e chiodi e la stessa base in ghisa del lampione si era tramutata in un nugolo di schegge mortali. L’effetto finale fu terribile: schegge e pezzi di ferro investirono il palazzo antistante sino al primo piano. Tutt’intorno, un numero impressionante di morti e feriti.
La macchina su cui viaggiava il sovrano, accompagnato dalle autorità del capoluogo, era appena giunta in corso Vercelli. Dopo aver appreso la notizia dell’attentato, il re decise di proseguire comunque verso la Fiera, dove la sua visita si svolse come da programma. Intanto, caricati su lettighe e ambulanze, furono portati via i corpi straziati, alcuni dei quali, senza vita, furono trasferiti direttamente al Cimitero monumentale.
Mussolini, nel telegramma inviato al podestà di Milano, bollò subito la strage come un prodotto della «bestiale criminalità dell’antifascismo impotente e barbaro». E ovviamente le indagini furono orientate immediatamente verso gli ambienti dell’antifascismo milanese. Anche perché era ben viva nella memoria della città la strage compiuta presso il Teatro Diana il 23 marzo del 1921 (ne abbiamo parlato qui). Tuttavia, gli autori della strage non furono mai individuati.
La cerimonia funebre ebbe luogo il 14 aprile presso il Duomo, dove, nella navata centrale, furono disposte 19 bare contenenti i resti delle vittime. Tutta la città sembrò voler prendere parte alle esequie. Straziante fu il momento in cui giunsero i familiari di Benvenuta, Gian Luigi, Rosina ed Enrico Ravera.
All’indomani, i giornali diedero notizia dell’arresto, presso Como, di un sospettato, tale Romolo Tranquilli. Comunista, era il fratello dello scrittore Ignazio Silone. Era giunto a Como, perché cercava, come tanti in quegli anni, di abbandonare clandestinamente l’Italia. Insieme a Tranquilli, furono arrestati Giuseppe Sarchi, Giuseppe Testa, Augusto Lodovichetti, tutti comunisti. Fu subito arrestato anche Lelio Basso, che il giorno prima della strage aveva fatto ritorno a Milano, dopo essere stato a Roma e a Napoli per incontrare i collaboratori della rivista che allora dirigeva, «Pietre» (i collaboratori non erano pericolosi terroristi, ma personalità del calibro di Benedetto Croce, Adriano Tilgher, Mario Vinciguerra, Pilo Albertelli, Alberto Consiglio ed altri ancora). Le indagini, che, senza indizi, furono orientate verso un’unica direzione, portarono all’arresto di un numero notevole di personaggi, giovani e meno giovani, tutti antifascisti. Ma l’assenza di prove e l’inconsistenza delle teorie investigative fece cadere tutte le accuse. Lo stesso Mussolini, intervenendo al Senato sul tragico episodio milanese il 3 maggio, evitò di rievocare i fantasmi «dell’antifascismo impotente e barbaro». Anche perché si iniziò a sospettare che dietro la strage vi fossero fascisti repubblicani e antimonarchici.
In anni più recenti sono tornati su quell’episodio ormai quasi del tutto dimenticato Carlo Giacchin, che nel 2009 per Mursia ha pubblicato il ricco e documentato volume “Attentato alla fiera”, Milano 1928, e Luca Crovi, che intorno a questa vicenda ha costruito il romanzo “L’ombra del campione”, (Rizzoli, 2018). Una «non-fiction novel».
You must be logged in to post a comment Login