Il primo giorno di scuola di quest’anno, incrociando i genitori che portavano i loro figli ad un plesso scolastico, non ho notato l’eccitazione degli anni scorsi. Volti seri, grigi, preoccupati: era l’inizio dell’anno scolastico della pandemia. I mezzi di comunicazione si erano prodigati ad illustrare i sistemi di prevenzione, altri a deplorarne i modi, le pecche dell’organico, i vizi ormai persistenti da anni della nostra scuola. Dal parlottare sommesso, ma talvolta focoso, dei genitori capivo la loro preoccupazione per l’arrivo di un nuovo insegnante: meridionale, con la famiglia lasciata al sud, incapace di esprimersi in un italiano comprensibile, elogiavano nel contempo la maestra che aveva cambiato sede: quella sì che era brava! Organizzava gite, faceva partecipare la scuola a vari concorsi, chiamava il genitore esperto in ecologia, in scienze alimentari, in sessuologia, in gioco degli scacchi, i vigili per l’educazione stradale per spiegare ai ragazzini i segreti della loro competenza. E poi organizzava la festa per i nonni, per i papà, per le mamme. A Natale grande concerto con musica rap (rappresentazione artistica della schizofrenia) senza mai nominare il Bambino, per carità, per non offendere i foresti venuti da lontano, grande mascherata a Carnevale e alla fine dell’anno un pantagruelico cenone organizzato dai genitori, che facevano a gara per dimostrare le loro abilità culinarie (“Che buona la tua torta all’ananas! Io ci avrei messo un cucchiaino di rhum!”).
I bambini erano entusiasti perché la maestra Cicci li faceva “socializzare” con giochi, recite, concertini. Peccato che, al termine delle lezioni, ognuno andasse per la propria strada caricati sulla Range Rover della mamma che li veniva a prelevare perché non abitavano nel paese, ma in comuni lontani anche dieci chilometri. Pochi erano gli scolari che potevano incontrarsi liberamente in paese per giocare: un certo signor Bassanini aveva “liberalizzato” la scelta della scuola. Non tutti erano obbligati ad andare a scuola nel plesso più vicino alla loro residenza. Molti accorrevano dalla maestra Cicci e così si salvava anche la scuola che rischiava di chiudere per mancanza di alunni. Le “classi pollaio” se le tenessero quei derelitti delle periferie delle grandi città!
Tra le tante priorità da affrontare – approfittando della pandemia in corso – c’è anche la scuola: ho letto di edifici fatiscenti, aule da tinteggiare, caldaie da sostituire, mense da mettere a norma.
Non ho letto una riga, non ho sentito una parola, una proposta su una svolta decisiva da dare alla nostra scuola in modo da riportarla ai momenti in cui tutti ci invidiavano, cioè prima delle nutrite riforme avvenute in questi ultimi due decenni. I risultati di queste riforme li vediamo sotto gli occhi ogni giorno: l’OCSE ha dimostrato che, alla fine della scuola dell’obbligo, solo un adolescente su quattro sa leggere e comprendere un testo, in matematica siamo messi molto male e la situazione è ancora peggiore nel campo tecno-scientifico ed informatico. Ma la crisi più evidente in cui versa la nostra scuola è il sostanziale disinteresse, venato di disprezzo, di cui, aldilà delle circolari, lettere, verbali, registri, progetti scritti e proclami di maniera, essa è circondata dalla classe dirigente e dalla politica. È una scuola senza un’anima, senza un progetto globale, senza una visione del futuro.
Il (la) ministro (a) ha bandito un concorso per immettere in ruolo più di trentamila docenti. Bene. Ma ha tenuto conto dell’andamento demografico? Esiste una programmazione per l’impiego delle risorse dei docenti per gli anni futuri visto che il trend demografico è in costante declino? È certo che fra tre anni nelle scuole dell’infanzia avremo ventimila bambini in meno che accederanno alle materne, mentre diminuisce il numero degli stranieri in arrivo (-8,6%). Ma il vero problema non è il reclutamento, ma la formazione dei docenti.
Mi dicono che la preparazione dei docenti sia peggiorata. Forse una causa è da ricercarsi nella preparazione universitaria di chi si appresta ad insegnare una determinata materia. Va di moda in questi tempi comparare i nostri sistemi economici e politici con quelli degli altri Paesi. Vorrei illustrare la tendenza che si nota nella formazione dei docenti in alcuni paesi dell’UE. Ne citerò uno (tralasciando il migliore: quello finlandese!). In Germania il giovane universitario che intende dedicarsi all’insegnamento di una determinata materia, deve non solo frequentare i corsi per acquisire le dovute competenze, ma anche i corsi di didattica, metodologia per poter insegnare quella disciplina, oltre ai corsi di psicologia dell’apprendimento e di sociologia.
Il problema è quello già esposto da Maritain settanta anni fa: “Per insegnare il latino a Pierino bisogna conoscere il latino o Pierino?”. I nostri insegnanti – mi riferisco soprattutto a quelli della scuola dell’obbligo – sono infarciti dalle nostre facoltà universitarie di competenze della disciplina da insegnare, ma non delle abilità per poter trasmettere quelle competenze.
Le abilità non si possono solo apprendere, ma dipendono moltissimo dalle disposizioni d’animo e dalle convinzioni che sostengono chi insegna, dalla sua autorevolezza piena di giustizia e di amore, dal “sapere” che riesce a far calare nella storia che i giovani vivono, dal grado di divertimento che prova nell’insegnare, dal senso di dovere che permette non solo di fare quello che è prescritto, ma dalla sua creatività, dalla sua cultura multiforme e non solo specifica, perfino dal suo modo di vestire perché anch’esso è un modo per porsi a relazionarsi con gli allievi e a comunicare con i genitori. Insomma, da chi insegna la società richiede comportamenti che rappresentino la scuola, un’istituzione che educa attraverso l’insegnamento, e il conseguente apprendimento, e non come occasione per fare qualcosa, in mancanza di meglio, per arrivare alla fine del mese.
Il problema, quindi, non è sapere, ma far apprendere perché ciò che viene appreso diventi vita: Omero per approfondire i primi sentimenti dell’uomo, la storia per interpretare le conquiste e le follie d’oggi, la matematica per suscitare la curiosità per il pensiero complesso e sequenziale, la scienza per capire che essa non può essere soggetta a relative interpretazioni, la musica e l’arte per contemplare il bello.
L’insegnante saggio trasforma la classe in una scuola di democrazia: più che ascoltare, i suoi allievi dovrebbero parlare, esprimere giudizi a patto che si parli uno alla volta, dopo aver alzato la mano; la classe è una strategia che trasforma l’ “io” in un “noi” dove viene bandita la competitività e promossa la collaborazione, la solidarietà, l’aiuto reciproco, dove il talento personale non viene escluso, ma espresso dentro al gruppo.
Fine della scuola, però, non è far socializzare. Lo scopo che lo Stato affida ai docenti è quello di educare attraverso l’insegnamento, che deve essere appreso. Il docente è colui che docet (=insegna) più con la vita che con la parola, l’insegnante è colui che lascia un segno nella vita dei suoi allievi, il maestro (da magis = di più) è colui che è più in alto perché deve sapersi chinare verso l’allievo per insegnargli il mestiere di vivere.
La scuola ritorni ad essere luogo dell’insegnamento, pur adoperando mezzi didattici moderni, tecniche offerte dalle nuove tecnologie, pur organizzando visite, si riappropri del suo passato e della propria tradizione, si ritrovi a rigenerare nei giovani l’amore per la cultura nazionale, senza dimenticare di aprirsi alle altrui culture.
Prima degli edifici, dei banchi, dei mezzi economici viene la formazione dei docenti perché “nulla sarà come prima”. Occorre dunque partire da qui, dalla qualità e dignità dell’educatore.
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