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Cultura

LE PORTATRICI

GIOIA GENTILE - 02/10/2020

tutiE no, accidenti, non posso piangere leggendo un libro! Con un colpo secco chiudo l’e-reader e mi alzo alla ricerca di un fazzoletto mentre le lacrime appannano le lenti e mi scivolano lungo il naso. Fatico ad accettare le mie debolezze, ma in realtà qualcosa nel profondo mi dice che queste lacrime sono una ricchezza.

Avevo già cominciato a intenerirmi imbattendomi negli scarpetz, pantofole di manifattura domestica fatte con ritagli di stoffa. Il ricordo era affiorato come una carezza: anche mia madre ne faceva di simili – me ne ero quasi dimenticata – ancora negli anni Cinquanta. Sovrapponeva strati e strati di pezze altrimenti inutilizzabili, li ritagliava sulla forma del piede e li trapuntava con un ago da materassaio che ancora mi capita tra le mani quando rovisto nella scatola dei fili; poi, con un altro pezzo di stoffa, creava la tomaia. Retaggio di tradizioni antiche, o forse abilità sollecitata dal bisogno. Erano pantofole comode e calde, che emanavano amore.

Ma le donne che le cuciono e le calzano nel racconto che sto leggendo non le usano solo nel tepore della loro casa: le indossano per salire in montagna, su sentieri sassosi, scivolosi e ghiacciati, con le schiene curve sotto gerle pesanti. Sono le Portatrici carniche – con la P maiuscola perché così risultano nei registri dei comandi militari, riconosciute come un reparto di soldati. Sono donne che parlano poco ma non esitano ad affrontare la fatica e la paura, donne che hanno fatto la Storia e di cui la Storia si è dimenticata, che nelle gerle portano armi, munizioni, cibo e medicinali ai soldati del fronte e delle retrovie. Vengono pagate una lira e cinquanta a viaggio, un aiuto economico che tuttavia non le libera dalla fame. Infatti non è per questo che rischiano la morte: in quei soldati sconosciuti, così diversi dai loro uomini, vedono i loro figli fratelli mariti; sostenerli significa celebrare la vita. Gli anni sono quelli tra l’inizio della guerra, il 1915 e la disfatta di Caporetto, il 1917.

A sottrarle all’oblio ha pensato Ilaria Tuti con il romanzo Fiore di roccia, in cui intreccia abilmente le vicende di personaggi immaginati con i fatti storici ricostruiti con scrupolo ed empatia.

Non so se l’episodio che mi ha commosso sia realmente accaduto, ma è certamente verosimile. Le Portatrici, salite per la prima volta in montagna con i rifornimenti per le retrovie, giungono sul luogo quando si è appena conclusa una battaglia. Sono sconvolte da ciò che vedono e riescono quasi a giustificare la diffidenza e i modi bruschi con cui vengono accolte, tanto che si dicono disponibili anche a lavare gli indumenti dei soldati, intrisi di sangue e di fango. Il giorno successivo, dopo che hanno scaricato le gerle, il capitano, non senza imbarazzo, mostra loro alcuni fagotti: contengono i panni da lavare, avvolti in vecchi giornali legati con lo spago. Su ognuno è stata posta una stella alpina. “Avremmo voluto regalarvi delle rose, come si conviene, ma capirete che non è stato possibile” – si scusa il capitano. Agata, la protagonista, sorridendo risponde che loro la stella alpina la chiamano “fiore di roccia”. “È questo che siete,” afferma il comandante, “fiori aggrappati con tenacia a questa montagna. Aggrappati al bisogno, sospetto, di tenerci in vita”.

Non è un sospetto il suo: le Portatrici della Carnia non vogliono tenere in vita solo quegli uomini, ma la vita stessa, là dove sembra possa esistere solo morte.

Ho avvertito la necessità – quasi l’urgenza – di parlare di questo libro anche se lo sto ancora leggendo. E già penso a come mi sentirò orfana quando l’avrò terminato. Orfana, ma un po’ più umana.

Ilaria Tuti, Fiore di roccia, Longanesi 2020

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