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Stili di Vita

POVERTÀ

VALERIO CRUGNOLA - 02/10/2020

generazioniLa piena modernità, che datiamo dallo sviluppo capitalistico dell’800, ha reso più difficile la comprensione tra generazioni. Il nuovo millennio sembra accrescere le difficoltà. Ogni epoca presenta conflitti, estraneità e continuità. I primi e le terze sembrano spariti a vantaggio della seconda.

Cosa sanno i figli dei genitori e dei nonni? Cosa i nonni dei nipoti? E i genitori dei figli? Nessuno è in grado di formulare valutazioni. La sociologia non ci aiuta. Le ventose del linguaggio corrente ci incollano a categorie evaporate negli anni. I telescopi non soddisfano e deformano troppo; i microscopi avvicinano, sono precisi, ma la loro estensione non è più visibile tanto è piccola. È un paradosso: si può parlare solo per sé stessi e per l’orizzonte di mondo che si può esperire; ma se ognuno parla per sé nessuno può pretendere di avere ragione. Scrivo da dentro la mia gabbia.

La vera domanda diventa: come generalizziamo noi vecchi? Siamo propensi a sperare e insieme disperare. Gli spiriti liberali “di una volta” non vogliono eredi, ma sono inclini a deludersi; pretendono di essere d’esempio, ma non sanno imparare; rimpiangono il mondo perduto ma non sanno immaginarne uno nuovo. I borbottii e i rimproveri diventano più frequenti. Le distanze crescono al punto che, a quanto si vede, una buona parte dei nonni (al di là degli affetti e delle complicità) non stima i propri nipoti. Avere lo sguardo rivolto al passato non sarebbe di per sé un male, se ci liberassimo dall’abitudine di sottrarre il valore degli altri da quello che ci attribuiamo.

Constato una perdita di qualità. Percepisco un fallimento generazionale e penso che morirò insoddisfatto. Lascerò, mi dico, un mondo peggiore. Un gran numero di persone più povere sul piano intellettuale, esistenziale e morale erediterà un ambiente, una vita e un ordine sociali irrimediabilmente compromessi. In due secoli un modello di sviluppo demenziale, iniquo e insostenibile ha distrutto un ambiente plurimillenario. Dovunque volga lo sguardo, ogni giorno vedo brutture e pericoli.

Il fatto di essere italiano rende ancora più gravoso il bilancio di fine vita. Non ho motivi di orgoglio nell’essere italiano. Aborro il retoricume. Siamo un paese brutto, non il più brutto solo perché sempre più rari paesaggi e centri storici sopravvissuti attutiscono gli orrori di cui siamo circondati. Siamo in aperto declino. I tanti ricchi e neoricchi, o comunque pasciuti (magari a scapito di altri), non cancellano le ingiustizie sociali, lo sfruttamento, il collasso dello stato sociale, il corporativismo, l’avidità meschina. Siamo sommersi di idee vecchie e frasi fatte in tutti gli schieramenti politici. Sprofonderò nel nulla roso da un vago senso di colpa. Nessuna legittima autostima e stima altrui cancella il pensiero di non aver speso abbastanza bene la mia vita. Brutta gabbia, la mia.

Due perdite di qualità mi colpiscono più di altre. Il grado reale di alfabetizzazione, di conoscenze e di istruzione è precipitato. Una lunga serie di ministri, da Luigi Berlinguer in poi, ha aumentato il numero dei diplomati e dei laureati modificando la realtà. Un diploma triennale in filosofia non dà una conoscenza molto più profonda di un diploma al liceo classico negli ultimi anni ’60. Scuola, università e ricerca patiscono le politiche sciagurate che hanno unito le varie destre, i vari centri e le varie sinistre. In queste condizioni la dequalificazione è irreversibile. Il diritto allo studio è assicurato nel modo peggiore: un titolo di studio non si nega a nessuno, ma nessuno si chiede a quale studio si abbia diritto. I sistemi formativi sono lo specchio di una generale decadenza. Il sapere è forse più accessibile, ma è mediocre e inutile. Le famiglie di classe media acculturata sono una minoranza, e se non fosse per questo strato sociale sempre più sottile non avremmo più speranze di ripresa.

Anche la qualità della vita di un giovane mi sembra inaccettabile. Se dovessi vivere con le logiche del mio tempo sarei un ragazzo solitario e infelice. La mia vitalità sarebbe soffocata dalla coazione a divertirmi, dalla massificazione dei costumi e dei consumi, dal tempo inerte, dalla pochezza della vita interiore, dal rassegnato velleitarismo, dal diffuso feticismo, dalla povertà della socialità tra pari, dalla mancanza di occasioni di migliorarmi e promuovermi grazie a musiche, letture, spettacoli e trasmissioni di pregio, a confronti politici aspri ma motivati dalla partecipazione alla vita collettiva e al bisogno di trascendere i limiti del proprio ambiente. In più, sarei mortificato da genitori improbabili, alla deriva ancora più dei figli, troppo protettivi, troppo arrendevoli e poco autorevoli.

Ho avuto una vita intensa e persino fortunata. Avrei potuto far meglio e avere di più, ma il tempo per sé vale più del danaro, del successo pubblico e persino di alcune felicità private. Tanto mi è bastato. Non vedo più le condizioni che hanno reso buona la mia vita: la qualità e il rigore degli studi; le opportunità di pensare e di esercitare la riflessività; la severità con me stesso; le aspirazioni (ancorché confuse e mal riposte) alla libertà, alla giustizia e alla pace; un gratificante anarchismo esistenziale. Ma la gabbia è gravosa. Lascio un mondo pessimo a giovani che con la loro inerzia stanno togliendosi il futuro da soli molto più di quanto ne siano stati privati da nonni e genitori. Non siamo stati in grado, se non in nicchie sempre più ristrette, di riprodurre queste condizioni e di preservare un pianeta con ghiacciai e balene, boschi e foreste, centri storici e campi. Mi chiedo dove abbiamo e ho sbagliato. Non so rispondere ma non mi assolvo. Non mi dichiaro innocente.

Mi viene immediato un paragone con l’Africa. Il colonialismo ha tolto molto agli africani, ma la povertà non assolve nessuno, e potrebbe essere un’aggravante. La rinuncia al futuro, l’assenza di libertà, di diritti e di democrazia è uno stato di minorità imputabile solo agli africani. Benché pasciuti e diversi, anche i giovani occidentali devono imputare solo a sé stessi le loro povertà.

Anche un laico integrale e disincantato spera sempre. Greta e le sardine mi sono piaciute. Avevano ragione. Ma la speranza si è consumata presto. Nulla tiene, tutto si logora. All’orizzonte non vedo moti collettivi di riscatto. Lo so, ragiono da vecchio quando mi illudo che i giovani possano ricreare le condizioni che hanno consentito a una quota di europei occidentale nati tra il 1945 e il 1970 di vivere con opportunità che le precedenti generazioni non hanno avuto. Ma noi, non i giovani, abbiamo dissipato quelle condizioni: per bulimia o vaneggiando cacotopie reali.

Solo lo specchio di fronte dà all’uccellino canoro l’illusione di essere fuori dalla gabbia.

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