Celebrare oggi, a 150 anni di distanza, il 20 settembre del 1870, può sembrare ad alcuni l’archeologica passione di cultori di memorie polverose. Eppure celebrare questa data è il segno tangibile di una conquista incredibilmente recente, della acquisizione recente di una maturità politica e culturale da parte del nostro Paese.
Ancora nel 1959, parlare in pubblico degli avvenimenti che si svolsero in quella giornata (la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia) poteva avere singolari effetti collaterali. Come capitò ad Ernesto Rossi. Lui, che il fascismo aveva condannato a venti anni di carcere, che dal confino di Ventotene con Spinelli e Colorni aveva redatto il Manifesto fondativo di una nuova idea di Europa, dovette subire la perquisizione della propria abitazione da parte della Polizia di Stato per aver pronunciato in pubblico un discorso dedicato a quella ricorrenza. C’era il sospetto che nelle sue parole fosse implicito il «vilipendio alla religione di Stato», per aver diffusamente citato quelli che per noi sono, scontatamente, gli eroi della stagione risorgimentale. Su questa vicenda, lo scrittore Guido Piovene scrisse un articolo per il settimanale «Epoca», il cui titolo era una efficace sintesi dello spirito del tempo: Vietato dir bene di Garibaldi.
Oggi, il 20 settembre non compare nel calendario della nostra Repubblica: non è un giorno festivo né una solennità civile. Eppure questo giorno è stato, per alcuni decenni, una festa nazionale. Lo era diventato anche per effetto delle spontanee e diffuse manifestazioni che un po’ dappertutto si registravano in occasione di quella giornata. E del resto, non v’è città in cui non vi sia una piazza o una strada dedicata al 20 settembre.
Il progetto di legge per elevare questa data a «giorno festivo agli effetti civili», fu presentato alla Camera dall’onorevole Nicola Vischi, pugliese di Trani, l’11 luglio 1895. La discussione, che portò poi all’approvazione della legge, si svolse il 19 luglio. Fu una discussione accesa e animata, che vide scompaginare e dividersi gli schieramenti al loro interno. Al punto che Andrea Costa, intervenendo, dovette constatare di essere «disorientato»:
«Io credevo che se la classe, che noi socialisti combattiamo, la borghesia, aveva ancora qualche ideale, questo era certamente l’amore della patria e il culto del libero pensiero […]. Riconosco che mi sono ingannato e riconosco pure che, stando così le cose, la borghesia non ha più ideali».
Erano gli anni, quelli, in cui la classe politica italiana usciva con le ossa rotta dallo scandalo della Banca Romana e l’anno successivo, con la clamorosa sconfitta di Adua, avrebbe mandato a casa Crispi e Baratieri: l’ultimo presidente del Consiglio e l’ultimo generale provenienti dalle fila dell’esercito irregolare di Garibaldi. Erano gli anni, quelli, durante i quali la battaglia tra filoclericali e anticlericali si giocava anche a colpi di simboli.
Pochi anni prima, infatti, durissima era stata la campagna elettorale per il rinnovo della giunta capitolina, tutta incentrata sulla opportunità o meno di elevare un monumento a Giordano Bruno. Quando questo fu inaugurato, il 9 giugno 1889, il papa Leone XIII, dopo aver minacciato di lasciare Roma e l’Italia, trascorse un’intera giornata nelle sue stanze, in ginocchio, raccolto nella preghiera.
Nel corso del dibattito parlamentare per la festa del 20 settembre intervenne lo stesso Francesco Crispi. Anche il Capo del governo manifestò il suo stupore «per il dissidio che si è manifestato, tanto da un lato come dall’altro della Camera. Credevo, – continuò – che una volta portata la legge alla Camera, sarebbe stata votata in silenzio». Alla fine la legge fu votata a scrutinio segreto e passò a maggioranza: 246 furono i voti a favore e 26 quelli contrari.
La prima celebrazione della nuova festa nazionale si svolse in quello stesso 1895. Nel discorso che Francesco Crispi tenne a Roma, ai piedi del monumento a Garibaldi eretto presso il Gianicolo e inaugurato in quella stessa giornata, non mancò un riferimento polemico a chi quella festa aveva osteggiato:
«I nemici dell’unità vorrebbero interpretare la festa odierna quale offesa al capo della Chiesa cattolica. A loro giova asserire questo, per ribellare contro la patria le coscienze timorate. […] Se il Cristianesimo, con la parola di Paolo e di Grisostomo, poté, senza l’aiuto delle armi temporali, conquistare il mondo, non si comprende perché il Vaticano debba ancora ambire il principato civile per l’esercizio delle sue funzioni spirituali».
Non c’è bisogno di ricordare come e quanto siano stati complicati i rapporti tra Stato e Chiesa nel nostro Paese e quanto questi rapporti abbiano pesato sulla vita politica nazionale.
La festa del 20 settembre, si diceva, durò qualche decennio. Subito dopo la firma dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio del 1929, il Vaticano, tra le prime richieste inoltrate all’Uomo della Provvidenza, chiese proprio l’abolizione di quella festività e la sua sostituzione con la data che avrebbe dovuto ricordare, nei futuri mille anni di fascismo, la conciliazione tra la Chiesa e lo Stato in camicia nera, l’11 febbraio, appunto. L’allora nunzio apostolico monsignor Francesco Borgongini Duca interpellò a tal proposito ripetutamente sia il ministro degli Affari Esteri Dino Grandi sia lo stesso Benito Mussolini.
La Chiesa, riconciliatasi con lo Stato, adesso poteva riappropriarsi di simboli e feste, in modo da sancire la restaurata integrazione della religione cattolica nella società italiana e riaffermare la sua egemonia culturale. In una lettera riservata, inviata a Mussolini il 12 settembre del 1929, in prossimità quindi della odiata ricorrenza, Borgongini scriveva: «il 20 settembre ricorda il momento più acuto del conflitto tra Chiesa e Stato» e avvertiva che né i cattolici né il Papa avrebbero potuto partecipare ad una festa «creata dal liberalismo e come al solito a fondo massonico e anticlericale». Mussolini, intanto, aveva già proibito per quell’anno il tradizionale corteo e i discorsi pubblici. Il duce, che pure aveva trascorsi, lui sì, di anticlericale, non potendo in tempi così brevi cancellare la festività nazionale, si impegnò a farlo per l’anno successivo. Ma a distanza di un anno, la promessa non fu mantenuta e il Vaticano minacciò il ministro degli Affari Esteri del Regno d’Italia di rimettere in discussione i Patti Lateranensi. La questione, sotto il profilo politico, era assai delicata: per sopprimere una festività nazionale occorreva emanare una legge e non si poteva dare l’impressione di cedere alle pretese della Chiesa cancellando solo quella festa. Così, l’11 settembre fu diramato dall’Agenzia Stefani un comunicato, con cui si annunciava la volontà di modificare l’elenco complessivo delle festività nazionali e di sostituire, dal 1931, quella del 20 settembre con la celebrazione dell’11 febbraio. Il 27 dicembre 1930, la legge fu approvata, ma il calendario civile che venne fuori era quello che segnava le tappe dell’affermazione del fascismo: il Concordato era solo una di queste, ridotto a solennità civile tra quella che ricordava la fondazione dei fasci di combattimento, il Natale di Roma, il genetliaco del re, l’anniversario della dichiarazione di guerra e la scoperta dell’America. Fu in quella circostanza che venne istituita la festività del 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma. Insomma, ad una religione e ai suoi simboli se ne sostituiva un’altra.
Abbiamo dovuto avvicinarci alla soglia del terzo millennio per affermare un principio che è il sale stesso della democrazia: il principio di laicità. Questo non è esplicitamente affermato dalla nostra Costituzione (a differenza, invece, di quella francese del 1958). Eppure era già implicito nella natura pluralista della nostra Carta, come si evince dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19, 20. Infatti, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 203 del 1989 ha definito il principio di laicità come «un principio supremo dello Stato», «uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica». Ed è ancora intervenuta su questo tema con le sentenze n. 334 del 1996, 329 del 1997 e 508 del 2000: la forma pluralistica del nostro Stato – propria di ogni democrazia, aggiungeremmo noi – comporta equidistanza e imparzialità nei confronti di ogni confessione religiosa.
Non so quanto siamo lontani dalla realizzazione di tale principio. Ma so che siamo molto vicini a quanto sognava Mazzini, che nel dicembre del 1867, auspicava che un giorno dal Campidoglio si potesse proclamare «la santità della Coscienza, la irrevocabilità del Pensiero, la Libertà dell’anima umana».
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