Esiste in Italia un indiscusso partito di maggioranza: quello dei governatori. O almeno di alcuni d’essi. Lo attestano le recenti elezioni: personalità come Zaia, De Luca, Emiliano, Toti (prima di loro, nel gennaio scorso, Bonaccini) ricevono più voti dei partiti d’appartenenza. Sono popolari, credibili, pragmatici. Hanno affrontato la tragedia del Covid evitando il peggio per tutti e dando il meglio di sé. La gente non li accomuna nello spregio verso la politica e se le capita l’opportunità di sceglierli per il tramite d’un movimento extra-partiti, lo fa volentieri.
L’occasione s’è manifestata il 20-21 settembre. A tante liste senza marchio tradizionale si deve il successo di governatori come Zaia, De Luca, Emiliano, Toti. Sono nate un po’ per spinta dei medesimi, capaci d’intuire l’umor circolante, secondandolo; e un po’ per iniziativa spontanea. Venuta, come si dice, dal basso. La rete dell’associazionismo, gl’impulsi del volontariato, la sensibilità civica han favorito il fenomeno, peraltro non nuovo. Civica (civico) è divenuta una parola d’esagerato uso e facile fraintendimento, però interpreta bene l’idea di partecipazione. Si vuol essere della partita politica in nome dei valori della cittadinanza. Non quella del reddito garantito ai nullafacenti, ma quella delle radici condivise. Tradotto: chi è parte d’una realtà, contribuendo a formarla e conoscendone ogni aspetto, vuol mettere la sua testimonianza di vita al servizio d’un progetto comunitario. Una formula (principalmente sociale) che funziona e rende attiva l’adesione alla campagna d’un leader.
Zaia, De Luca, Emiliano e Toti, bravi a pizzicare le corde di quest’empatia, sono stati premiati dalle urne. Una strategia che verrà copiata dagli aspiranti sindaci delle grandi città, Milano, Roma, Napoli eccetera, dove in primavera si rinnovano le amministrazioni. Lo stesso succederà qui da noi, dirigendosi verso il traguardo l’attuale legislatura municipale. Proprio in vista dell’appuntamento, ci s’ingegnerà sui fronti di centrosinistra e centrodestra per mobilitare le risorse territoriali al modo dei governatori strappa-consenso. Lo spirito pratico fa aggio sulla questione ideologica.
A Varese Galimberti allestirà, come nel 2016, una lista a suo nome. Nel nome del sindaco. Forse ne aggiungerà d’ulteriori. Sarebbe sorprendente l’atteggiamento opposto a una mesticanza virtuosa. Questo non significa una diminutio di Varese 2.0 che molto l’aiutò a imporsi, ma conferirle un valore aggiunto. Ovvero: siccome quell’opzione (quell’alleanza) si rivelò vincente, va ripetuta. Moltiplicandola. E moltiplicarla significa cercare nuovi voti nell’area del riformismo moderato che storicamente segna la differenza nelle elezioni italiane. Nazionali e locali. Come a Varese fu confermato in occasione del ballottaggio di quattro anni fa, allorché il gruppo di Malerba si unì al tandem Galimberti-Zanzi e opinioni in libertà trovarono spontaneo ricovero nella coalizione-patchwork.
Ecco perché, sotto la bandiera del ‘civincismo’, il centrosinistra ‘largo’ deve trovare rapida unità su questo punto anziché discordare. Tanto più che il centrodestra, messo alle strette dall’attivismo quotidiano/municipale degli avversari, esprime l’intento di comportarsi allo stesso modo. Specialmente se il suo candidato a Palazzo Estense fosse a trazione non d’una Lega salviniana, ma d’una Lega post salviniana. La Lega 3.0 che in Veneto ha sbaragliato il campo. Maroni o chi per lui (verosimilmente qualcuno al posto suo), non sarà forse lo Zaia bosino. Ma sottovalutare l’ex ministro, e chiunque lo surrogasse, si rivelerebbe un errore fatale.
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