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Politica

LITURGIE CREATIVE

EDOARDO ZIN - 25/09/2020

messa“Persino in molte case religiose si ha la televisione! Forte spesa voluttuaria che conduce ad un certo senso di mondanità, desiderio di vivere con tutti i comodi possibili, soddisfare tutti i piaceri…” – così scriveva nel gennaio 1956 un cardinale di Santa Romana Chiesa ad un suo confratello. Traggo il pensiero dalla corrispondenza tra i due eminentissimi che è stata pubblicata recentemente in un volume commemorativo dei due, omaggiatomi dal curatore.

Il mio pensiero è subito corso al mezzo televisivo odierno come strumento di sfida per una presenza di fede. L’abbiamo provato durante i giorni più bui della pandemia: l’uso del digitale che la pastorale ha impiegato per tenere vivi i contatti in una comunità e per una liturgia che coinvolgesse l’intera comunità.

Come ha detto il nostro Arcivescovo – “La situazione è occasione” – la comunicazione digitale c’è stata. Forse troppo. Se avessi dovuto assistere virtualmente a tutti gli inviti per partecipare ai dibattiti, alle conferenze, agli incontri di movimenti ed associazioni rivoltimi per assistere alle messe trasmesse in streaming o alle forme di pietà popolare che hanno invaso gli schermi durante la pandemia, avrei dovuto talvolta passare mezza giornata davanti allo schermo del computer, ma non so se la mia fede ne avrebbe tratto vantaggio! Il rischio di questa virtualizzazione virale della vita ecclesiale è stato quello di aver dato sfogo ad un certo protagonismo clericale piuttosto che a un coinvolgimento di tutta la comunità.

Al contrario, l’aver assistito alla celebrazione mattutina della Messa di papa Francesco, alla liturgia del triduo pasquale, alla visione del procedere lento di Francesco sotto la pioggia verso la basilica di San Pietro da dove avrebbe invocato la misericordia di Dio sul mondo mi ha condotto “oltre” lo spazio ristretto che mi presentava lo schermo per abbracciare nel mio intimo tutta l’umanità dolente “fino ai confini del mondo” e ha innalzato il mio spirito “oltre” il tempo per adorare Dio in spirito e in verità nel silenzio della mia casa e nell’intimo del mio animo, andando così “fino ai confini del mio cuore spesso titubante”.

Tra le sciatterie liturgiche di certe messe improvvisate in streaming, tra l’inadeguatezza comunicativa di certe omelie, tra l’assenza di una vera e propria assemblea eucaristica preferivo assistere (purtroppo non “partecipare”!) all’Eucarestia alla televisione. Ma così non può continuare. La virtualizzazione liturgica impone di ritornare fra la comunità a due condizioni: che l’Eucarestia sia l’espressione di un’intera comunità e che l’intera comunità si riunisca per l’Eucarestia. È indubbio che la comunità si crea quando si riunisce per spezzare il pane comune, per ascoltare la Parola di Dio, per lodarLo con inni e cantici. Ma a nulla servirebbe questo riunirsi se fosse soltanto un modo per osservare la legge, per adempiere ad un precetto: in questo caso sarebbe una schiavitù, non una fonte di libertà, fondamento dell’amore verso Dio e i fratelli: riunirsi non andrebbe oltre i recinti dello spazio religioso e non sarebbe fonte d’amore per abbracciare coloro che mi stanno vicini fino a dilatarsi per abbracciare il mondo intero.

Non ricordo il nome del teologo che scrisse che nei primi tempi del cristianesimo l‘Eucarestia era così impastata con la vita che sarebbe stato perfino difficile dire a qual punto incominciasse il rito. Ma è una verità sancita dal Vaticano II.

Abbiamo assistito, virtualmente ai primi tempi della pandemia e ora con la presenza fisica, ad Eucarestie dove la vita, con la sua varietà, i suoi problemi, le sue miserie e la sua ricchezza, resta fuori delle porte della chiesa, mentre dentro c’è il buon credente che ha portato le sue devozioni, il suo intimismo, le sue simpatie per questo o per quel movimento.

Non è stato il Covid 19 ad aver svuotato le celebrazioni domenicali, ma prima ancora è stata l’assenza del mondo umanizzato in una liturgia esasperatamente sacralizzata, sterilizzata, depurata dal mondo. Col Covid questo distacco è aumentato: ci si è distanziati non solo fisicamente, ma emotivamente; il panico per il contagio è preminente sullo sguardo benevolo, la faccia ferigna sul sorriso, taluni “ostiari” sembra abbiano il compito non di accogliere, ma di cacciare via i cani dalla chiesa come ai primi tempi del cristianesimo.

Eppure in una chiesa vivo liturgie che, senza contrastare le norme liturgiche e le disposizioni civili, sono diventate “creative”: il suono dell’organo ha sostituto i canti, il ministro tiene l’omelia rimandando l’esperienza vissuta – talvolta davvero drammatica – alla luce del Vangelo, le preghiere dei fedeli non sono “prefabbricate”, ma nascono spontanee dall’assemblea, il gesto della pace è sostituito da un inchino, da un sorriso, da una mano posta sul cuore, da un “ciao, ciao” con la manina detto dai più piccoli, il pane e il vino, realtà elaborate dalla fatica dell’uomo, che diventeranno presenza reale di Cristo, non vengono incensate, ma il ministro, prima della preghiera eucaristica, accende davanti ad esse in un braciere l’incenso perché, con il profumo, le offerte, dono dell’intera comunità, salgano al Cielo, al momento del ricordo dei morti, un inserviente accende un cero, segno di una nuova vita che si spegne qui in terra per accendersi in cielo, il pane – divenuto corpo e sangue di Cristo – viene spezzato per tutti davanti all’assemblea, il sacerdote consegna ai ministri straordinari dell’Eucarestia i panieri con il Pane celeste da distribuire ai fedeli che tendono la mano come fanno i mendicanti. Al termine il sacerdote pronuncia la benedizione: “Ci benedica il Dio nostro che è Padre, Figlio e Spirito”. Ci benedica, al plurale come al plurale si è svolta l’intera liturgia. L’Eucarestia è sempre comunitaria! E alla fine tutti restano al loro posto: si eleva un corale che coinvolge tutti, che tutti unisce, un canone: “Dona nobis pacem…!”.

Ecco: vorrei che la pandemia fosse un’occasione perché il vero spirito liturgico entrasse nelle nostre eucarestie, rappresentasse l’irruzione di creatività in una Eucarestia ormai abitudinaria, rivelasse la sorgente e il culmine del nostro vivere, si sporcasse nei drammi della vita. Il tutto nel silenzio, ma non nella solitudine perché anche la preghiera personale si dilata sulla misura della vita. Allora la comunità non sarà semplice convivenza, il silenzio mutismo, la solitudine misantropia, ma una comunità viva che non allontana, ma accattiva ogni uomo e lo educhi alla fede.

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