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Attualità

FIDUCIA

ROBERTO CECCHI - 25/09/2020

fiducia3“Non sarà mai più come prima” è quello che si sente ripetere spesso in questi giorni, per dire che il dopo-Covid sarà un mondo irrimediabilmente diverso da quello che abbiamo conosciuto fin qui. In qualche modo, dovranno cambiare abitudini, lavoro, istruzione e molto altro. Perché esperienze come lo smart working sono capaci d’incidere profondamente non solo sul nostro lavoro, ma anche su quello degli altri. Si contraggono i movimenti. Si attenuano gli scambi. Andranno ridisegnate intere parti di città.

Una situazione difficile (“la pandemia – dice Mario Draghi – mina anche il tessuto sociale”), da cui si spera di uscire con uno scatto di reni, come accadde nel Secondo Dopoguerra, quando il Paese fu capace di rialzarsi, dopo essere stato trascinato in un conflitto brutale, in cui perdemmo dignità e ricchezza. Il bilancio finanziario di quella disgraziata avventura fu che lasciammo sul campo qualcosa come 3200 miliardi lire (circa tre volte il reddito del 1938), per non parlare le decine di migliaia di vittime (64000 solo a causa dei bombardamenti) e i danni a infrastrutture come porti, ferrovie, flotta mercantile. Eppure, si ripartì ad una velocità sorprendente (anche facendo parecchi errori, come nei riguardi del territorio che subì sfregi indelebili). Nel settembre del 1946 l’attività industriale aveva già raggiunto quasi il 70% di quella che era stata nel 1938. Oggi, la speranza di tutti è che una performance del genere si ripeta. E, stando al comportamento virtuoso che il Paese ha saputo dimostrare durante la prima fase della pandemia, ci sarebbe da essere fiduciosi.

Ma non è la medesima situazione. Quel che manca, oggi, rispetto a ieri è la visione di un orizzonte condiviso, di una linea comune, di una strada da percorrere insieme. In poche parole, manca quella fiducia che è il “tessuto della società” e che, se non c’è, porta alla “sua distruzione”. Siamo sempre più individualisti, attenti solo agli interessi particolari, rinserrati nell’angusto perimetro della famiglia. Grandi lavoratori (soprattutto in certe zone del Paese), ma senza guardare troppo ad una prospettiva comune. C’è chi è andato a misurare questa sfiducia (l’Eurobarometro) e ha certificato quello che sentiamo a pelle. Siamo insoddisfatti, sfiduciati, nei confronti dei vicini, della comunità di cui facciamo parte e in modo particolare delle istituzioni (parlamento, governo, pubblica amministrazione).

Non è questo il clima per la rinascita. Per ripartire, ci vuole fiducia. E la fiducia è quest’ingrediente impalpabile, inodore e insapore che dobbiamo ritrovare perché è parte integrante del tessuto sociale e sta alla base dello sviluppo economico. È sulla fiducia che si fanno le transazioni. È sulla fiducia che si basano “le decisioni di imprenditori e consumatori”. Per dirla con le parole di altri, la mancanza di fiducia significa “rovinare la comunicazione, creare difficoltà e sospetto, rendere gli accordi inefficaci, indebolire la mediazione, ridurre la solidarietà, screditare la leadership”.

In un mondo dominato dai social, a intuito, parrebbe facile porre rimedio al vuoto che si è creato. E invece è proprio da qui che, paradossalmente, son nate le premesse per mettere in discussione la coesione sociale, aggirando i sistemi di intermediazione a cui, prima, era affidato il compito di fare da filtro a notizie e informazioni, creando quel boato con un’infinità di voci, che in ogni momento ci assale. In questo clima, chi ha responsabilità pubblica avrebbe l’obbligo di proporre visioni pacate, consapevoli, meditate e fondate. Non giova alla costruzione del capitale sociale la menzogna e la mezza verità. Non giova che soggetti pubblici neghino la pandemia e facciano passare parole d’ordine che aprano la strada al “libera tutti”. Minano la fiducia. Contribuiscono alla creazione quel clima di incertezza che non incrina solo la coesione sociale, ma mette in seria difficoltà anche lo sviluppo produttivo. Dunque, meno talk show e più fiducia. Perché la fiducia più che una ricetta è un motore.

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