La vita quotidiana è punteggiata di moti di avversione, ostilità e rifiuto verso alcuni comportamenti di persone sconosciute: le cosiddette idiosincrasie. Queste reazioni, per lo più solo immaginate, spesso si incistano a tal punto nel nostro carattere da acquistare una leggera impronta maniacale o rituale. Ne so qualcosa.
Tutti sperimentiamo le reazioni alle nevrosi degli automobilisti al semaforo. Basta un attimo di esitazione mentre ti chiedi dove devi svoltare per essere coperto da una raffica di colpi di clacson e di grilleschi vaffa. I più rispondono per le rime, con il dito medio alzato o altri frastuoni. Ma ci sono anche risposte “civilizzatrici”. La denuncia dell’ineducazione degli italiani è diffusissima, ma chi predica dal pulpito non è a sua volta così immune come la presunzione di ergersi in cattedra vorrebbe far credere.
Per restare nell’alveo dell’esempio, la mia controreazione ai vaffa semaforici vuole essere compatibile con l’eleganza e con l’obbligo di contenere e deviare gli scatti d’ira (il più dannoso dei sette peccati capitali che normalmente frequento con intensità variabile). Il sarcasmo in casi simili è la mia “arma migliore” (leggasi “peggiore”). Mi viene di rispondere, con toni fantozziani: – «Mi scusi!!! Lei deve correre a casa per “stare su Facebook” e le ho fatto perdere tre preziosi decimi di secondo». All’atto pratico taccio, non replico e lascio stare. Dalla reazione nel pensiero non discende un gesto coerente.
Sono più a rischio se vedo violato il mio senso minimo di giustizia e di ragionevolezza.
Un malcapitato che non si guarda in giro mentre smanetta seduto su qualche mezzo e non cede il posto a persone con difficoltà non dipendenti dall’anagrafe, si può beccare uno sguardaccio tra il beffardo e il commiserevole, con quel lieve oscillare del capo che nel linguaggio dei gesti significa: «Sei un poveraccio».
Con più cinismo auguro al motociclista che mi assorda ogni giorno di perdere il controllo e di schiantarsi contro un muro. Fortunatamente per lui nessun dio ascolta le mie invocazioni.
Poco dopo Ferragosto nell’area pedonale del centro storico vedo passare un’anziana coppia non povera ma sciatta (un ottantenne non dovrebbe aggirarsi in una città con i pantaloni corti). Ho intercettato una frase: – «Un euro e settanta per un caffè è una vera ladrata». La signora concorda. Si erano appena alzati da un tavolino in un bar affollato. Non mi ha irritato la chiosa di lei: – «D’altronde siamo a Varese». Non nutro sentimenti localpatriottici: anzi, francamente li detesto. Mi ha toccato, invece, l’ossessivo badare al ghello. I due, ho pensato, non sembrano aver molto da dirsi e di questo badare ha fatto un habitus e un elemento di coesione. In questi casi la mia reazione (soltanto pensata) è di por mano al portafoglio e allungare all’Arpagone (sia egli “bosino” o “forestiero”) qualche centesimo sparso dicendo: – «Tenga, buon uomo”.
A chi ascolta musicaccia a manetta contribuendo all’inquinamento acustico vorrei dire: “Vedo che lei ama Beethoven. Complimenti. Piace anche a me”.
Ai tatuati (almeno ai più vistosi) mi rivolgerei dicendo: “Suppongo che lei si sia laureato a Yale”.
Rischio spesso di venire arrotato sulle strisce in quei circuiti di Montecarlo a cui, in totale assenza di controlli – se il gatto dorme i topi ballano – sono ridotte le vie cittadine. Nei momenti di maggior rischio, reagisco agli impuniti estraendo il fazzoletto dalla tasca per sventolarlo come la bandiera a scacchi sul traguardo.
Potrei annoiarvi per ore. Dove voglio andare a parare “confessando” la mia “puzza sotto il naso”?
Sono in causa i miei comportamenti. Più sono microscopici e più sono rivelatori. Soffro di una vocazione pseudopedagogica a scuotere l’amor proprio degli altri che si manifesta con inutili ma dilettevoli sarcasmi. È un’inclinazione deforme a convertire il mondo: velleitarie punture omeopatiche di zanzara. Non ho alcun diritto a pontificare, ma spesso non resisto alla presunzione di chi si atteggia a “maestro”. Ciascuno di noi ha minuscole zone d’ombra nel proprio carattere. Nel mio caso la terapia non consiste nell’umiltà associata alla tolleranza (pio desiderio dei predicatori), bensì in un silenzioso straniamento stoico e buddista dai giudizi negativi impliciti in comportamenti che sulla carta osteggio. Bisogna tacitare le proprie idiosincrasie senza piegarsi ai più.
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