E’ un ciclismo condensato, ristretto in tempi angusti e fuori stagione quello che ci accompagna in questa estate stravolta dal Covid. Un ciclismo in difficoltà tecnica ed economica privato in tutto o in parte del suo naturale propellente: il pubblico a bordo strada. Che è vero non paga il biglietto come invece accade in tutti gli altri sport, salvo ai mondiali e sulle tribune degli arrivi più importanti, ma che sempre crea, come si dice in gergo economico, “indotto”, ovvero gente che si sposta, mangia, beve, dorme, fa acquisti, visita per l’occasione, città, paesi, territori. Tutto questo è quasi del tutto sparito, i cigli delle strade sono semideserti, sulle grandi salite dove fino allo scorso anno c’erano muri di folla oggi ci sono solo manciate di tifosi salvo alcune eccezioni al Tour. Tutto giusto e opportuno per carità in chiave anti pandemia, allora però non ci si deve meravigliare se il mondo del ciclismo è in sofferenza economica un po’ ovunque. Gli sponsor, fatti quattro conti, tendono, se non a chiudere definitivamente la borsa, a prendersi qualche pausa di riflessione in attesa di tempi migliori. E i bilanci delle squadre cominciano a fare acqua visto che il 90-95% dei budget è coperto appunto dalle sponsorizzazioni. Forse sarebbe opportuno ridurre il numero delle corse, soprattutto quelle World Tour e non obbligare le squadre ad essere presenti a tutte quelle in calendario. Essere protagonisti in contemporanea su diversi fronti internazionali significa andare in contro a spese fisse considerevoli anche solo per viaggiare, alloggiare, mangiare.
In questa fase di grande incertezza sanitaria ed economica, un ruolo fondamentale lo stanno giocando le televisioni. E’ infatti attraverso le immagini che si alimenta l’interesse della gente per il ruvido sport delle due ruote. Molte emittenti hanno dilatato i tempi di trasmissione delle corse integrando i commenti tecnici con annotazioni di carattere geografico, storico e artistico affidati ad esperti che, oltre ad essere tali, devono ovviamente amare il ciclismo. Su questa strada da tempo si è mossa la Rai che però, per ragioni sconosciute, ha rinunciato ai contributi di Alessandra De Stefano che soprattutto al Tour, offriva ai telespettatori, con le sue “Cronache gialle” (durata massima 4/5 minuti), uno spaccato di Francia profonda e sconosciuta. Un contributo di immagini e informazioni, sempre ben montate e ben calibrate, che davano respiro ai telespettatori e ne accendevano le curiosità extra ciclistiche. Interrompevano provvidenzialmente l’alluvione di parole che spesso avvolge la cronaca di lunghe tappe noiose – la maggioranza – dove capita poco o nulla di ciclisticamente rilevante. Memorabile resta una sua “Cronaca gialla” in cui raccontò la storia, semi sconosciuta in Italia, di Rose Valland, l’insegnante d’arte francese che durante l’occupazione tedesca della Francia (1941) riuscì ad opporsi, almeno in parte, alla grande razzia di opere d’arte organizzata dai nazisti.
Comunque sia le televisioni avranno nel ciclismo del futuro un ruolo sempre più importante e di conseguenza l’avrà anche la questione dei diritti di diffusione delle immagini, come accade da molto tempo nel calcio e nella Formula 1. C’è da augurarsi che una fetta di questa torta, oltre che agli organizzatori, alle agenzie di commercializzazione e all’ UCI (Unione ciclistica internazionale), finisca anche nelle tasche dei corridori. A fronte di un ristretto numero di campioni che staccano dalle squadre assegni milionari, ben inteso niente a che vedere col calcio o altre ricche discipline, la maggioranza pedala, fatica, cade, si rialza in cambio di stipendi non esaltanti. E talvolta sull’asfalto lasciano anche la vita come è accaduto talvolta in passato (ricordiamoci di Casartelli) e come poteva capitare anche all’astro nascente del pedale belga Remco Evenepoel al Giro di Lombardia.
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