Il 6 settembre 2020, si è svolto, presso i giardini estensi di Varese, il “battesimo civico” dei neo-maggiorenni. Per il terzo anno consecutivo, l’Amministrazione comunale ha voluto salutare i giovani cittadini, che, con il raggiungimento dei diciotto anni, conquistano il diritto di voto, consegnando loro una copia della Costituzione e la tessera elettorale. Di seguito si propone il testo del discorso pronunciato da Enzo R. Laforgia in quella occasione.
C’è una foto, negli archivi della Camera dei Deputati, che vi invito a cercare e ad osservare con attenzione. Documenta il momento in cui fu approvato il testo definitivo della nostra Costituzione. Era il 22 dicembre del 1947. Al centro dell’immagine, in piedi davanti ad un microfono, è Alcide De Gasperi, Capo del governo. Alle sue spalle, il Presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini. Intorno a De Gasperi, in quel momento solenne, una folla di deputati: tutti maschi e tutti uomini maturi. C’è solo una donna, alla destra di Terracini. Nella foto, il suo bell’ovale, contornato da una lunga chioma nera, è collocato proprio tra De Gasperi e la tribuna del Presidente. È un volto giovane. È quello della più giovane costituente presente in Assemblea, una delle 21 donne elette tra i 556 deputati: si chiamava Teresa Mattei e aveva 26 anni.
Ho pensato di partire da questa immagine, da questa bella figura di donna, per due ragioni. Innanzitutto perché Teresa Mattei, nata a Quarto (Genova), ha trascorso la sua prima infanzia a Varese, negli anni che vanno dal 1927 al 1933. Una sua sorella e due dei suoi fratelli (Teresa era la terza di sette figli) sono nati a Varese: a Bosto e a Masnago.
Ma soprattutto perché Teresa Mattei era appunto una giovane donna, poco più grande di voi, che in Parlamento doveva confrontarsi con personalità (e ne cito solo alcune) del calibro di Benedetto Croce, Piero Calamandrei, Emilio Lussu, Luigi Longo, Teresa Noce, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi, Giorgio La Pira, De Gasperi, Pietro Nenni, Lelio Basso, Vittorio Emanuele Orlando. Personalità gigantesche, per la loro autorevolezza nei campi della politica e del sapere e per la loro storia personale. Alcuni avevano attraversato le due guerre mondiali, altri venivano da un tempo ancora più remoto.
Teresa Mattei era ben consapevole di questo scarto generazionale e culturale. Nel corso della seduta dell’Assemblea costituente del 18 marzo 1947, le capitò di intervenire proprio dopo Vittorio Emanuele Orlando. Questi, nato nel 1860, era entrato in Parlamento nel 1897 e, tra i tanti suoi incarichi, aveva guidato, come Capo del governo, la delegazione italiana alla Conferenza di pace di Parigi del 1919. Parlare dopo Vittorio Emanuele Orlando avrebbe fatto tremare chiunque. Anche i meno giovani. Nel prendere la parola, la giovanissima Teresa Mattei, esordì in questo modo: «Onorevoli colleghi, parlare dopo il decano, dopo i più anziani di questa Assemblea è un compito un po’ difficile per una giovane donna. Ma, forse, uno dei pochi vantaggi che io presenterò, sarà quello di essere breve, anche perché mi sarebbe estremamente difficile diffondermi troppo in ricordi di gioventù». L’Assemblea scoppiò a ridere.
In realtà, per quanto giovanissima, Teresa Mattei aveva già alle sue spalle una vita densa di esperienze straordinarie. Di famiglia antifascista, Teresa fu una ragazza precocemente “disobbediente”. Per essersi rifiutata, al quarto anno del liceo classico che frequentò a Firenze, di ascoltare l’insegnante di scienze in uno dei suoi sproloqui razzisti ed antiebraici, fu espulsa da tutte le scuole del Regno. Dovette sostenere gli esami di maturità da privatista e poté così iscriversi alla facoltà di Filosofia. Nell’estate del 1943, la scelta di contrastare attivamente il fascismo e, successivamente, la presenza tedesca in Italia, fu l’esito quasi naturale del clima culturale da cui proveniva. Fu una partigiana attiva, combattente. Come suo fratello Gianfranco, chimico brillante dell’Ateneo milanese, il quale, arrestato dai tedeschi e rinchiuso nella famigerata prigione di via Tasso a Roma, per non rischiare di tradire i suoi compagni di lotta durante i penosi interrogatori che lì si consumavano, decise di togliersi la vita, impiccandosi. Anche a Teresa capitò di essere arrestata dai tedeschi: dopo essere stata picchiata brutalmente, fu stuprata dai suoi carcerieri per un’intera notte.
Pertanto, avrebbe avuto di che raccontare, Teresa Mattei, avrebbe tranquillamente potuto diffondersi in ricordi di una gioventù sottoposta alla grande prova della guerra e della lotta di liberazione.
Ma proseguendo il suo intervento, volle sottolineare come la stesura dei cosiddetti principi fondamentali della nostra carta costituzionale avesse delineato «il volto nuovo» dello Stato. Un profilo caratterizzato da parole come democrazia, lavoro, progresso sociale, pace, dignità della persona umana, eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche. Un rovesciamento netto e radicale di ciò che era stata l’Italia durante il fascismo.
Pur riconoscendo l’importanza ed il valore storico e politico rappresentati dalla nostra Costituzione, ricordò a tutti, ai suoi colleghi ma anche a noi, che la ascoltiamo a distanza di quasi un secolo, che la semplice enunciazione di principi non basta. La democrazia, per essere compiuta, richiede che quei principi siano realizzati «di fatto» (fu proprio lei a far introdurre questa espressione al secondo comma dell’articolo 3). E concluse il suo intervento ricordando che «spetta a tutti noi […] di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica per rendere effettiva e piena questa sovranità popolare».
Più o meno negli stessi termini si era espresso, in circostanze drammatiche, un altro giovane. Si chiamava Giacomo Ulivi ed era nato a Parma. Fu fucilato dai fascisti il 10 novembre del 1944 sulla piazza Grande di Modena. Aveva 19 anni. Prima di morire scrisse una lettera ai suoi amici, che io immagino avessero la sua stessa età, la stessa età dei diciottenni di oggi, che coltivassero gli stessi sogni e la stessa sete di futuro dei giovani di oggi. Ricordò loro come una ventennale «diseducazione» avesse fatto maturare nelle coscienze della sua generazione la voglia di allontanarsi dalla politica, percepita ormai quasi come una «cosa sporca». Ma per rendere migliore un futuro che non avrebbe visto, Giacomo Ulivi spiegò a loro, come a noi oggi, che ciò che chiamiamo «la “cosa pubblica” è noi stessi»: «la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo» e proprio per questo «dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il lavoro più delicato e importante».
Da noi, da ciascuno di noi, dipende il futuro di tutti. Anche quel futuro lontano che alcuni non vedranno mai, ma che pure tutti sogniamo e desideriamo migliore del presente. Per questo oggi, quando si spegneranno i microfoni, quando le nostre voci cederanno il passo alle vostre riflessioni, chiedetevi, come Giacomo Ulivi chiedeva prima di morire ai suoi compagni: «Come vorremmo vivere domani?».
La patente di maggiorenni vi carica oggi di maggiori responsabilità. E vi ricorda che la realizzazione di ciò che vorrete essere domani individualmente dipende da ciò che riuscirete ad essere collettivamente, tutti insieme. Dipende da come riuscirete a custodire ed anche a cambiare «la cosa pubblica». E quindi, chiedetevi, oggi: «Come vorreste vivere domani?».
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