La privatizzazione delle autostrade alla fine del secolo scorso è stata uno dei capitoli meno edificanti nei rapporti tra Stato e mercato negli ultimi decenni in Italia, ma il ritorno sotto il controllo pubblico delle stesse autostrade ha tutte le caratteristiche per essere una soluzione ancora peggiore se si guarda all’interesse collettivo, all’equilibrio della spesa pubblica, al rispetto delle regole di fondo di un’economia aperta.
Vent’anni fa, nell’ambito di un più che giustificato processo di cessione ai privati di società controllate dallo Stato veniva indetta una gara per affidare in concessione la rete autostradale che era stata costruita negli anni da società del gruppo Iri, il perno di quelle che allora erano le partecipazioni statali. Gli obiettivi, come detto, erano più che giustificati: ottenere capitali per ridurre il debito pubblico già allora molto alto, garantire la manutenzione e nuovi investimenti, mantenere a livello più elevato il servizio e la sicurezza per gli utenti.
Per questo venne usato lo strumento della concessione: non viene ceduta la proprietà, ma unicamente la gestione con l’impegno all’ammodernamento per un dato periodo di tempo (fissato prima in venti, poi in quarant’anni) con regole chiare per la fissazione dei pedaggi e gli investimenti da effettuare.
Il privato gestisce, lo Stato controlla che le regole vengano rispettate. Così avrebbe dovuto essere, ma così non è stato. Il concessionario, una società che fa capo alla famiglia Benetton, si è avvantaggiato grazie a tariffe sempre più alte mentre ha lesinato sugli investimenti in manutenzione e sicurezza.
Il problema è esploso con il crollo del ponte Morandi, nell’agosto di due anni fa. Nelle ore successive da parte dei ministri 5 Stelle (allora al Governo con la Lega), si invocava l’immediata revoca della concessione come doveroso atto di giustizia verso le 43 vittime della tragedia.
Ma la giustizia sommaria e i processi di piazza non fanno parte di uno Stato di diritto dove una delle regole fondamentali è che i contratti vanno rispettati (pacta sunt servanda, come afferma uno dei principi del diritto romano che è alla base dell’attuale civiltà giuridica). Certo, i contratti vanno rispettati da entrambe le parti ed in questo caso è emerso con sempre maggiore evidenza che il concessionario, la società Autostrade per l’Italia, ha mancato ai suoi obblighi, ma anche che chi doveva sorvegliare, il ministero delle Infrastrutture, è stato per anni carente nelle verifiche e nei controlli.
L’ipotesi di revoca è rimasta sospesa per aria per due anni, ma fin dal primo approfondimento al di là della veemenza ideologica, si è rivelata una strada sempre meno percorribile, sia perché avrebbe comportato un indennizzo miliardario, sia perché sarebbe stato impossibile sostituire da un giorno all’altro i servizi effettuati da una società con oltre settemila dipendenti.
Si è così giunti alla soluzione concordata a metà luglio. In sintesi: i Benetton rinunciano al controllo della società Autostrade, al loro posto subentrano come azionisti alcune entità controllate dalla Stato come la Cassa depositi e prestiti, una banca controllata da Tesoro che amministra i fondi del risparmio postale.
Quindi lo Stato che è già proprietario delle infrastrutture, torna proprietario anche della concessione incassando i pedaggi e impegnandosi a realizzare gli investimenti di manutenzione e sviluppo.
Tutto bene? In verità i problemi sono molti. Il primo è che fanno capo alla stessa entità, lo Stato e quindi la politica, i quattro punti fondamentali del sistema autostradale: la proprietà, le regole, la gestione e i controlli. E’ lo Stato, cioè la politica, che definisce che cosa deve fare il concessionario, che obiettivi deve porsi, che controlli deve eseguire. E’ ancora lo Stato che deve sorvegliare e se necessario punire se stesso. E’ sempre lo Stato a decidere quali investimenti compiere anche al di là e al di sopra delle compatibilità del mercato.
Negli anni ’70 e ’80 si costruirono autostrade su misura per i collegi elettorali dei politici più influenti. Come la famosa PiRuBi, dai nomi di Piccoli, Rumor, Bisaglia per collegare Trento a Vicenza e Rovigo. Un’autostrada rimasta incompiuta.
Tornare allo stato padrone non è una bella prospettiva. Lo Stato ha tutti i mezzi per fissare le regole e verificarne il rispetto. E in questo contesto i privati possono offrire efficienza e redditività. La storia italiana è ricca di episodi in cui il settore pubblico brilla per sprechi e inefficienze. Se lo Stato e i privati facessero ognuno la propria parte sarebbe molto meglio per tutti.
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