“È importante diventare direttore sanitario. È un posto di potere, è un posto politicamente forte”: questo era il parere dell’altro interno dell’istituto di Igiene. Eravamo in due con la qualifica di interni: lui specializzando in igiene e tecnica ospedaliera, io invece laureando che cercavo di realizzare una tesi sperimentale. Solo due? Sì, allora l’Università poteva offrire esuberanza di posti di internato agli studenti e medici che erano stati selezionati un po’ crudamente negli anni precedenti.
Le sue parole mi avevano fatto meditare non poco: “potere” e ” politicamente forte” evidenziavano una visione molto pragmatica della professione che uno si accingeva a fare. Una visione dove la componente servizio al prossimo, qualità presente in ogni attività umana, era ridotta ai minimi termini lasciando il posto alla ricerca dei vantaggi offerti dal potere, sostenuto dalla attività politica, tutto in funzione del singolo impegnato a tutti i costi a raggiungere quello che viene chiamato “il successo”.
Ai nostri giorni le cose sono molto cambiate e la figura del Direttore Sanitario di prerogative ne ha perse tantissime: il potere è passato nelle mani degli amministrativi prima e successivamente, dopo numerose riforme sanitarie, nelle mani di Direttori Generali delle ASL o ATSS. I direttori sanitari e i direttori amministrativi sono diventate pedine, anche se molto importanti, delle équipes dei Direttori Generali, figure politiche che fanno riferimento direttamente agli assessorati centrali dei governi regionali: sono questi gli odierni uomini di successo, equiparabili agli Amministratori Delegati delle grandi aziende: persone che hanno fama e sicurezza economica indubbia.
Gli ospedali vengono ora definiti aziende. Sono cambiati i nomi, ma si è anche cercato di cambiare l’organizzazione e di conseguenza il funzionamento delle strutture dell’ex ospedale; però non sono cambiate le malattie, le cure, la ricerca e la necessaria potente carica di dedizione nei confronti del malato, essere umano ossia persona sofferente che, se portatore di forma infettiva, può diventare un pericolo per chi lo sta curando. Si potrebbe dire, rispolverando la celebre frase del romanzo del Gattopardo che “tutto cambia perché tutto resti come prima”, riferendoci in questo caso non alla società ma al mondo della sofferenza, alla sanità impegnata a combattere la malattia, che resta sempre tale.
È chiaro a questo punto che nonostante tutte le riforme fatte, nonostante tutte le scelte politiche, sociali, tecnologiche fatte, nonostante i tanti soldi investiti in modo giusto o in modo spaventosamente errato, nonostante tutte le speculazioni ideologiche e monetarie realizzate nel passato e che verranno fatte nel futuro, il nocciolo della situazione resta e resterà sempre l’uomo con la sua malattia, con la sua sofferenza, con il suo terrore di fronte al cessare della vita.
Abbiamo vissuto la grande esperienza del primo momento della pandemia, che sta ancora tormentando questa umanità da noi e in altre regioni. Ci siamo chiesti che cambiamenti sarebbero avvenuti nelle società dove tanti hanno dovuto versare lacrime, tanti hanno dovuto convertire i loro modi di vivere ma tanti, anzi troppi, continuano ad andare avanti indifferenti attraverso eventi sconvolgenti per i sensibili ma non per loro, definibili “popolo dalla dura cervice”. (v. Esodo 34,9)
La vita è esperienza unica, non più ripetibile al suo cessare. Avremo un’altra esistenza impensabile, non descrivibile per i limiti delle nostre capacità di comprensione e di descrizione? La fede in molti dà questa speranza, ma non sarà un vivere come quello attuale per cui tutto quanto accade ora nel bello o nel brutto, nel fantasticamente sublime o nell’orrido, c’è solo ora! La serenità o il soffrire nel fisico o nell’anima c’è ora e la certezza l’abbiamo specialmente quando gli eventi ci mettono davanti gli occhi di chi si trova nel momento in cui gli vien comunicata una diagnosi che spegne speranze oppure, come nei giorni scorsi, davanti all’anestesista che lo sta intubando senza certezza di risveglio.
Questi i momenti della sanità che deve operare di fronte alla vita, di fronte a chi sente amore o odio, a chi vede i propri affetti fiorire o disseccarsi, nella felicità o nel terrore; sanità che non opera nella necessità d’essere “il direttore sanitario” per inseguire il successo, dimenticando il valore della ricerca scientifica, il valore di aiutare a vincere le sofferenze, di urlare alla vita, e riducendosi ad essere “uomo dalla dura cervice”. Purtroppo fa molto comodo essere e agire così perché ti tiene lontano dai tormenti, dagli interrogativi che devono essere nell’animo dei giusti.
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