“Il timore del Signore prolunga i giorni e gli anni dei malvagi sono accorciati.” – si legge nel libro dei Proverbi della Sacra Scrittura. Dunque, la vecchiaia, o l’anzianità, come si usa dire da un po’ di tempo quasi per esorcizzare l’ultimo periodo della vita, è un dono di Dio.
Vicino anch’io agli ottanta anni, indotto forse dalla diffusa recente epidemia che ha falcidiato una buona parte dei nostri anziani e mi ha costretto a vivere la triste esperienza di avere un congiunto isolato in una residenza per anziani, mi trovo a pensare a questo premio di Dio, che per taluni miei coetanei è desiderio di vivere a lungo e bene, per altri è un lento avvicinarsi verso sorella morte, per altri è la cronicizzazione di alcune malattie, la disabilità: vivono ritirati dalla comunità dei vivi per essere accolti in comunità dove la vita scorre monotona, sempre uguale, senza relazioni significative, assistiti sì – e spesso con abnegazione – ma non curati nell’anima.
Come ci sono giovani che vivono da vecchi, così ci sono vecchi che vivono da giovani. Non mi riferisco a coloro che credono di poter essere giovani a ottanta anni, nella prospettiva della “eterna giovinezza”, ma a coloro che invecchiano mantenendosi giovani nello spirito, continuando a giocare a tennis o facendo lunghe escursioni in montagna con gli sci d’inverno e gli scarponi d’estate. Non nascondo che ammiro – anzi, invidio – questi miei coetanei, le cui imprese non posso ricalcare a causa dell’artrosi che si è manifestata, complice il gelido vento dei paesi del nord – Europa che mi ha perseguitato per anni. Supplisco a questa carenza con passeggiate nei dintorni, con la cura del giardino, con la visita a città d’arte o viaggi. E cerco di mantenere vigile l’intelletto con la lettura, partecipando a conferenze o a concerti, nei limiti consentiti oggi dalle disposizioni di confinamento.
Ci sono coetanei che, giunti alla pensione, vivono il riposo legittimo, come un tempo di disoccupazione, si sono rinchiusi in casa, hanno ridotto i loro rapporti sociali e passano le loro giornate davanti al televisore, leggono poco perché la vista si è indebolita. Figli e nipoti, in molti casi, vivono lontano e non godono della loro presenza. Percepiscono una posizione di marginalità sociale, pur dai contorni sfumati, che li fa sentire poco protagonisti del tempo che stanno vivendo. Un senso di stanchezza li impadronisce e sono convinti che la vecchiaia sia un sostanziale momento di passività. Questo limite si acuisce in coloro che nella vita lavorativa hanno assunto un ruolo sociale di guida e su di essa pesa il condizionamento derivante dall’emarginazione o di esclusione vera e propria, se non di abbandono.
Ancora più pesante è la condizione di chi si trova in una residenza per anziani, dove l’invecchiare è antagonista del morire e si trova a gareggiare con la fine della vita, magari affetti dal morbo di Parkinson, da forme di arteriopatie, dal rallentamento delle funzioni mentali, da demenza senile o da morbo di Alzheimer. È doloroso visitare queste persone: li chiami per nome e non ti riconoscono, nei rari momenti di lucidità ti stringono la mano e piangono, non ricordano, delirano e diventano aggressivi, cercano di parlarti, ma non riescono e si abbandonano allo sconforto. La vecchiaia è nascosta dalla malattia e dietro questa maschera i medici e i congiunti sperano di trovare rimedi. Sono questi malati certamente vivi, ma la loro vita assomiglia molto alla morte, anche se questo non può essere scientificamente provato, ed anche questo è un modo per esorcizzarla o per continuare a rinviarla. La vita di queste donne e uomini è ben diversa da quella di loro coetanei che si muovono, hanno relazioni con i nipoti, comprendono e partecipano alla vita che scorre attorno a loro.
Nel periodo di confinamento, per questi malati è stata un’immensa sofferenza: lo dico per aver condiviso questo tormento con un mio congiunto. Rinchiuso nella sua stanza singola, tenuto seduto tutto il giorno o su una poltrona o sdraiato a letto, all’inizio del confinamento comunicava telefonicamente con me con la sua solita lucidità, anzi scherzava. Dopo essere stato sottoposto a tre tamponi (e per compiere questa analisi doveva spostarsi ogni volta in ambulanza all’ ospedale lontano trenta chilometri!), finalmente un giorno arrivò il responso negativo. Doveva stare ancora in “quarantena” per altre due settimane, ma una notte, alzandosi dal letto, ebbe un malore e fu portato nuovamente al vicino nosocomio. Al suo ritorno, scattarono altri giorni di isolamento e cominciò il suo declino: non poteva comunicare con i suoi cari, non poteva muoversi, si rifiutava di mangiare perché trovava il cibo spregevole, diventò aggressivo e ora sta sprofondando verso il delirio senile.
Questa esperienza mi ha fatto comprendere che gli anziani, soprattutto se malati, hanno bisogno della presenza dei familiari e in particolare dei figli: sono essi che rassicurano il malato e che lo fanno rivivere, che lo possono comprendere anche quando fa le bizze, che fingono di capire anche quando straparla perché sanno che esprimersi gli fa bene, che hanno l’amorevole pazienza simile a quella che il genitore aveva nei loro confronti quando erano piccoli, che gli fanno una carezza perché l’anziano avverte in essa l’amore che egli ha per loro, che l’abbracciano perché gli fanno presentire quello del Padre che lo attende…
Questa vicenda mi ha fatto riflettere che le nostre strutture assistenziali mancano spesso di una cultura di collaborazione con le famiglie e si pongono in termini sostitutivi di essa, favorendo la logica competitiva, anziché la collaborazione. Inoltre tendono a rispondere a schemi standardizzati inadeguati alle esigenze particolari delle singole persone.
Fra le tante emergenze che la pandemia ci ha fatto riscoprire c’è anche questa: rivedere il sistema assistenziale. Nella cura fisica per i nostri anziani è in gioco la nostra umanizzazione che deve rendere più solidale la nostra società, più vivibile la nostra terra e renderla migliore ancor di più di quella che ci hanno lasciato in eredità i nostri vecchi. Questa terra non sarà più abitata da chi ci lascerà, non sarà neppure l’attimo fuggente che noi viviamo, ma sarà di chi la renderà più ospitale per tutti, di chi sorpasserà la nostra storia, l’attraverserà con la fiducia che chi verrà dopo di noi farà tesoro anche di questi giorni cupi.
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