Questa mi mancava. Stavo già per rallegrarmi – con moderazione – del fatto che alla scuola si sia finalmente rivolta l’attenzione della classe politica, quando mi sono imbattuta nelle “rime buccali”. Tutto un panorama di rime mi si è dispiegato davanti (rime baciate, rime alternate, dantesche rime pietrose, petrarchesche rime sparse…), ma nessuna “rima buccale” emergeva dai recessi della memoria. Una vaga intuizione, che speravo fosse ingannevole, mi ha indotto ad approfondire l’argomento.
Ecco cosa dice la Treccani: “bocca; comunica col mondo esterno mediante la rima buccale (rima oris), apertura delimitata dalle labbra (labia oris), a forma di fessura trasversale tra le due guance (buccae)”.
Perplessa, mi sono fermata a pensare quale motivo possa avere spinto l’estensore delle linee guida per il rientro a scuola a sostituire il termine “bocca” con “rima buccale”. E, in un infondato impulso buonista, ho sperato che fosse la vergogna. Certo – mi sono detta – dopo giorni e giorni in cui ci parlano di distanziamento tra i banchi e, a intervalli regolari, ci mostrano immagini di misuratori armati di metro che li allontanano e di improponibili cubicoli in plexiglas, si sono finalmente accorti che metà degli studenti non potranno rientrare in classe a settembre. Allora, secondo l’uso italico, hanno cambiato la norma: le distanze non andranno più prese tra banco e banco, ma tra bocca e bocca. Del resto – avranno pensato – le droplets non escono dalla bocca? Che c’entrano i banchi? Qualcuno, però, deve aver avuto un sussulto di pudore e ha cercato di nobilitare la discutibile decisione ricorrendo ad un linguaggio elevato e, soprattutto, scarsamente comprensibile.
Il tragico è che, comunque la si voglia camuffare, questa norma lascerà fuori dalle aule circa un milione e duecentomila studenti.
E’ l’esito di decenni di politiche dissennate che hanno trattato la scuola come area di parcheggio e mai come un investimento per il futuro, in ciò favorite anche da una classe insegnante in larga parte votata al martirio e, per la restante piccola parte, abituata a tirare a campare. I genitori? Di solito contenti di parcheggiare i figli fino al raggiungimento della maggiore età, purché sempre promossi, indipendentemente dalle conoscenze e dalle competenze acquisite.
E’ chiaro che, se si ritiene sia questo lo scopo della scuola, più numerosi sono i posteggi/studente meno si spende. E dunque ecco le aule riempite come barattoli di acciughe sott’olio, senza alcuna attenzione neppure per le elementari norme di sicurezza.
Quando, per effetto del calo demografico, le scuole avevano cominciato a svuotarsi, mi ero ingenuamente rallegrata, pensando che avremmo avuto classi con pochi allievi, con cui sarebbe stato possibile un insegnamento individualizzato, rispettoso dei tempi, delle capacità, degli interessi di ciascuno. E invece eccoci qui, a misurare la distanza tra le “rime buccali”, a dimostrazione del fatto che ciò che interessa sono, ancora una volta, gli spazi e non le persone.
La speranza è che l’ironia scatenatasi sui social (“Oggi parleremo delle rime buccali di Bonifacio”; “Silenzio, chiudete la rima buccale!”…) faccia riflettere i nostri politici e che la pandemia possa essere uno stimolo per migliorare le cose. Ma il tweet di Cottarelli mi convince di più: “Se parliamo così, siamo certo un paese con un grande passato. È il futuro che mi preoccupa…”.
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