Tracotante, violento, disgustoso il senatore della Repubblica che, dopo aver urlato come una iena contro una sua collega e la presidente dell’assemblea, ha dovuto essere portato fuori dall’aula da due muscolosi e sgomenti commessi, tra il coro di approvazione di tutti i senatori. L’episodio mi ha sconcertato. Non ce l’ho con chi l’ha portato via, fatto uscire, ma con chi l’ha fatto entrare.
Lo so, è stato eletto dal popolo, ha il diritto di sedere tra gli scranni della mala bestia, ma non ha certo dimostrato di essere un bonus vir!
Il fatto è significativo per dimostrare a quale grado di scadimento sia affondata la nostra rappresentanza parlamentare, ma anche come sia in caduta libera la fiducia nelle istituzioni e la perdita del potere operativo della politica. Dietro a quel personaggio ci sono coloro che l’hanno votato, coloro che gli hanno affidato il compito di rappresentare tutta la nazione, coloro che hanno contato su di lui per avere buone leggi idonee a guidare il nostro Paese. E, forse, tra quegli elettori oggi ci sono gli ipocriti che gridano allo scandalo. Non è il solo campione di questa specie. Nel tempo, abbiamo assistito ad un senatore che mostrava il cappio ad un suo avversario, a chi mangiava pane e mortadella per festeggiare la caduta di un governo, a chi innalzava striscioni inneggianti all’odio verso i migranti.
Sono atti di vera irresponsabilità perché la collera, la veemenza della parola, l’odio proclamati da chi ha responsabilità civiche e morali trovano terreno fertile in quella piccola e debole cosa che è il cervello umano. “Se lui è come noi, noi possiamo essere come lui.” pensano molti. I cittadini che credono ancora nello stato democratico, viceversa, sono nauseati da chi relega un’istituzione a osteria di un tempo, dove tra un’imprecazione e l’altra, una pacca sulla spalla, si giocava a carte, magari un po’ alticci. L’isterismo pacchiano invita alla collera e questa alla violenza che sono mali perniciosi per la democrazia, per la nostra stessa convivenza umana.
Non era ira quella del “senatore” (il cui nome, è bene ricordarlo, deriva da senex, cioè “vecchio”, “saggio”) perché l’ira ha come fine il ripristino della giustizia e la riparazione del torto subito e nell’uomo saggio dura un momento. La sua, al contrario, era collera che ha aggredito con la violenza verbale, che ha insultato, urlato e ha fatto chiasso, al fine di attirare su di sé l’attenzione. Essa è stata amplificata dai social dove si ostenta l’odio e si deride il bene, il cosiddetto buonismo che ormai è diventato un insulto.
Anche in questo momento doloroso che stiamo vivendo, con una grave crisi economica che si annuncia per il prossimo autunno, sembra che l’etica con i suoi corollari del rispetto della dignità di ogni uomo, dei suoi diritti, della giustizia da praticare verso i più diseredati non illumini più la politica. Non si adopera più la parola per compiere il bene, ma per diffondere l’odio.
Il Parlamento, di cui il Senato è la seconda camera, è il luogo dove “si parla”, si discute. La prima regola è rispettare la “parola”. E’ la prima norma che indica nella persona che parla la maturità intellettuale, emotiva e morale. Rispettare la parola è amore per la verità, abusare della parola equivale a disprezzare l’uomo. Assistiamo spesso a eletti dal popolo che, soffocati nella loro maschera di pagliacci, esclamano parole senza senso, senza un messaggio e rimbalzano spente nell’intelligenza del saggio, mentre infuocano le “pance” dell’uomo della strada, magari disoccupato, con figli da mantenere e che a stento arriva alla fine del mese. E assieme al vilipendio della parola assistiamo al sarcasmo, all’ostentazione del cinico disinteresse, alla sfrontatezza con cui ci si consente anche ciò che è vietato. Il comune cittadino si sente rassicurato dal capo-popolo: ci possiamo fidare da lui. Non sa il poveretto che quelle parole pronunciate servono solo ad assicurare consensi al candidato che, una volta eletto, non le userà per praticare la giustizia, ma per perpetrare il malcostume. E’ affascinante sentirsi dire: “Abbasserò le tasse!”, ma è più ancor disgustoso non conoscere come farà a realizzare la sua proposta! La parola, poi, diventa saccenteria (“coi panelli di metano si alimenterà il ponte”!) o viene rispettata ad anni alterni: quest’anno la Festa della Repubblica si doveva celebrare, ma negli anni precedenti da essa ci si doveva dissociare!
Lo scadimento della politica, espressa nella violenza della parola, provoca l’odio che continua a scorrere tra le mura domestiche e per le strade, a coprire le pagine dei giornali, a incancrenire gli animi. Come contrastare l’odio?
Anzitutto con la conoscenza, condizione primaria per difendere e rivendicare la verità. E’ un comportamento da ignoranti non andare alla ricerca e controllare quanto viene detto, non interrogarsi su ciò che sta dietro il successo delle bufale, comprendere la complessità e il carattere articolato dei problemi.
Alla conoscenza occorrerà unire la saggezza perché conoscere le regole non basta, occorre rispettarle o denunciarle se ingiuste. L’uomo saggio ha una sua visione del mondo, ma attraverso il diaframma delle ideologie è incapace di afferrare la realtà. Ecco perché ama il confronto, il dialogo, la relazione con gli altri. La grandezza di un politico sta proprio nella consapevolezza che da solo non può governare. Ha bisogno di un continuo incontro con chi rappresenta.
Oggi più che mai per sconfiggere l’odio occorre praticare la giustizia. Tutte le democrazie del mondo rischiano di cadere sotto i colpi della disuguaglianza. Occorre ridistribuire in misura equa le proprie ricchezze a chi ha meno, anche a costo di perdere il consenso che legittima un governo. Abbiamo bisogno di politici che non urlino, che non si credano potenti perché hanno conquistato il ruolo di capi, ma che decidano verso obiettivi che gli elettori hanno affidato a loro. “La giustizia – dice Simone Weil – consiste nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini. Viene fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: – Perché mi viene fatto del male?”. Quando questo giusto grido arriverà nel Parlamento?
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