Questo articolo è una dichiarazione di voto, ma è coerente con questa rubrica là dove mostra il deficit culturale di una politica priva di valori fondanti.
Il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari si terrà a settembre. Vi parteciperà un’esigua minoranza. L’opinione pubblica non coglie la posta in gioco per il funzionamento e la qualità delle nostre massime istituzioni rappresentative. Una battaglia giusta è in mano a gruppi ininfluenti e passatisti in lotta per la loro sussistenza testimoniale e ideologica. Una buona causa senza interpreti non ottiene risultati.
La riduzione dei parlamentari, nata con scopi strumentali e dettata da calcoli elettoralistici contingenti, avrà effetti sistemici durevoli. I 5S mirano a recuperare consensi tornando a suonare le corde dell’antipolitica. Nonostante la rottura dell’estate 2019, le destre radicali condividono con i 5S un vasto retroterra ideologico, e si sono allineate perché l’antipolitica non ammette concorrenti: ogni terreno va conteso al cugino politico che lo occupa. Il PD ha preferito adeguarsi per tenere in piedi un governo nato per arginare la marea populista montante. Queste scelte opportunistiche dimostrano che l’Italia non sa esprimere una lealtà istituzionale che non sia a corto raggio. Le regole della demagogia ignorano la razionalità.
Il cattivo funzionamento del sistema della rappresentanza istituzionale non dipende dal numero dei rappresentanti. I risparmi nei costi finanziari sono irrisori nel bilancio generale di uno stato di 62 milioni di abitanti. Ma nella mentalità corrente i parlamentari sono scaldapoltrone, élites strapagate al servizio dei poteri forti ma mantenuti dal Popolo buono, puro, sobrio, virtuoso e lavoratore. Se davvero volessimo risparmiare, prosciugare l’autoreferenzialità del ceto politico e risparmiare risorse, potremmo avere risultati migliori abolendo il Senato. Cambia poco avere 635 deputati, di cui 5 a vita, in una camera sola o averne 605 in due camere.
La battaglia riformatrice fu persa nel 2016, quando grandi costituzionalisti del calibro di Fiorella Mannoia, Piero Pelù, Sabrina Ferilli, Alba Parietti e Toni Servillo o intellettuali di fama mondiale come Lino Banfi capeggiarono i difensori del bicameralismo perfetto sfruttando le pulsioni suicide di Renzi, un incoercibile catalizzatore di impopolarità. Con i suoi atteggiamenti, il primo ministro e segretario del PD, oggi padrone di Italia Viva, ha preso provvedimenti a dir poco infelici, ma sull’abolizione del Senato aveva ragione. Ho votato Sì al referendum: mi sono espresso nel merito e non contro la buona scuola, le penombre del job act e un tacchino gonfiato. Mal istigato, l’elettorato non fu in grado di scegliere con saggezza. Ma Renzi, benché sconfitto, pensò di avere in tasca il 40% degli italiani. Con questa illusione si è schiantato al suolo, trascinando con sé nel suicidio il PD, la compagnia di volo di cui fu l’incauto pilota.
Il bicameralismo perfetto è un sistema istituzionale paralizzante che non si confà a una democrazia deliberativa. Nel referendum confluirono sul No le forze populiste, miranti a destabilizzare il paese e sconfiggere il PD, e gli ultraconservatori di sinistra, che descrissero il Senato come presidio perenne della democrazia, benché non sia scritto da nessuna parte che un sistema bicamerale perfetto sia preferibile a un sistema bicamerale con funzioni diverse, o addirittura al monocameralismo.
Convinti che una doppia lettura avrebbe meglio garantito le minoranze, alcuni costituenti ratificarono il duopolio emerso con le elezioni del giugno 1946: il monopolio dal governo alla DC, quello dell’opposizione al Fronte Popolare. Sapevano che la sconfitta delle forze socialdemocratiche e laiche a favore delle due opposte chiese, i conservatori cattolici e gli stalinisti, avrebbe impedito ogni alternanza. Consapevole che i comunisti, anche nella versione di stalinismo edulcorato inscenata da Togliatti, non sarebbero mai saliti al potere, la DC concesse volentieri questa guarentigia al PCI, e molti socialisti, azionisti, liberali e laici, benché estranei alla diarchia, si arresero. La dialettica istituzionale finì paralizzata.
Anche i costituenti erano fallibili. Profaneremmo la loro intelligenza trattandoli come vacche sacre. Dopo di loro il mondo è cambiato più volte, molte ere si sono susseguite, ma il bicameralismo perfetto ci resta sul groppone. Il Senato duplica inutilmente la rappresentanza, espone le composite maggioranze e le composite opposizioni a ricatti, debolezze e incertezze, è un rifugio di interessi localistici o corporativi che possono fare aggio su questo o quell’eletto, a destra come a sinistra. Il bicameralismo perfetto non è salutare per la democrazia.
Il risparmio sta nell’efficienza dei processi deliberativi. La riduzione dei rappresentanti aggrava l’inefficienza e peggiora i danni. Anziché porre fine al bicameralismo con un taglio di 315 senatori, la Camera perderà 230 rappresentanti, il Senato 115. Non vale la pena pagare costi politici ben superiori al modesto risparmio finanziario generato da 30 parlamentari in meno. In un clima sereno anche chi lamenta gli elevati costi della politica potrebbe convenire con questo argomento. Alla Camera si passerà da un rapporto di un deputato per centomila cittadini a uno ogni 155.000, ogni 310.000 al Senato. L’incremento della rappresentanza democratica e del pluralismo politico e territoriale di cui parla il Conte bis è una chiacchiera acchiappacitrulli.
La lentezza del bicameralismo sarà aggravata dalla lentezza delle attività delle Commissioni, che monitorano l’esecutivo, sono l’anima dell’attività legislativa con le loro funzioni consultive, referenti, redigenti e deliberanti, e obbligano le opposizioni a ruoli propositivi. Si eviterà la palude riformulando la composizione delle Commissioni o riducendo il loro numero?
Per ovviare al surplus di lentezza si ricorrerà alla decretazione d’urgenza, a parole contrastata da ogni partito finché non è al governo. Quali carichi di lavoro attendono gli esponenti dei gruppi parlamentari più piccoli? Come questi rappresentanti presidieranno i territori? La qualità del dibattito legislativo, già pessima, cadrà ulteriormente. Non avremo tempi ragionevoli né un’attività istituzionale all’altezza, e non prosciugheremo gli annosi problemi dell’agire politico. Con buona pace di chi ha riempito le camere di populisti, di chi seguita a sciropparsi forze mediocri e vili in nome del meno peggio, e di chi si schiera non per avere successo ma per inseguire la chimera di una gloria postuma.
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