Qualche anno fa Massimo Salvagnini scrisse e illustrò Gerontown. La sua Grafiphic Novel parte da una domanda provocatoria: Che cosa accadrebbe se i vecchi non volessero farsi da parte. È un racconto che sviluppa una utopia alternativa basata su un drammatico presupposto: l’ egoismo del vecchio. Senza rivelare l’intera storia, si può, però, immaginare di scrivere un fumetto alternativo. O semplicemente descrivere la realtà post la tragedia del coronavirus. E si sa che a volte la realtà supera l’immaginazione e che le parole cercano di afferrare la realtà. Non vecchio ma over 65, non anziano ma diversamente giovane e altre possibili definizioni, con qualche ironico eufemismo come quello di tarda adultità. D’altra parte la domanda su quando si diventa anziani è al centro da anni di molte ricerche che valutano, in relazione all’invecchiamento della popolazione in Italia e in Europa, gli aspetti fisici, psicologici, nonché culturali e sociali. E le varie ricerche confermano quanto sembra lapalissiamo, che avere 80 anni nel 2020 non è come avere la stessa età, o modello di vita, soltanto venti anni fa. Anche se sono drammatiche le ultimissime indicazioni dell’ISTAT per cui l’aspettativa di vita al Nord, effetto dell’alto tasso di mortalità a seguito dell’epidemia, è calcolata in calo di due anni, questa dolorosa constatazione obbliga a guardare con attenzione l’universo degli anziani. Dovrebbe essere ancora stimolante quanto solennemente proclamato nel 2012, anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni. Se otto anni fa era una sfida per sensibilizzare le decisioni anche politiche, oggi è una necessità, una urgenza sociale e culturale.
E la risposta alla domanda di quando si diventa anziani presuppone un grande spartiacque: l”anziano fragile, soprattutto per malattie, e l’anziano ancora attivo. Un distinguo quanto mai fondamentale, fatto di rispetto e di riconoscimento per i cosidetti over che vivono la loro età propositivi nel variegato mondo del volontariato. Saremmo tentati di rivedere una frase attribuita a James Joyce il quale affermò che uno scrittore non dovrebbe mai scrivere di ciò che è straordinario: questo è compito del giornalista. Da quando siano precipitati nell’esperienza della pandemia, giustamente è stato dato grande rilievo a come molti giovani si siano attivati per aiutare con varie forme di volontariato i più fragili, i più soli, tra cui gli anziani. Reazione straodinaria ad un evento straordinario? Certamente. Ma forse anche a livello giornalistico non sarebbe stato male, una volta tanto, parlare anche dell’ordinario. O semplicemente trasformare in notizia il prezzo psicologico pagato da tanti over che non hanno potuto continuare il loro servizio di volontariato. E in molti casi non lo possono ancora fare. In Italia da anni si registra un incremento degli over 65 anni, o meglio i giovani anziani, cioè quelli che hanno una età compresa tra il 65 e i 74 anni, nel volontariato senior. Una rilevazione dell’Istat del 2008, dato non recente ma interessante, informò che addirittura tra gli over 75 ci fosse un incremento di oltre il 61 per cento per attività nell’ambito del volontariato: dalla militanza culturale al servizio attivo e di supporto a varie iniziative. Sappiano bene (o dovremmo sapere) che essere attivi anche in età avanzata non solo rappresenta una colonna portante per le comunità ma anche un far sentire più sereni e meno “fragili”chi lo esercita. Forse è il momento di ricordare come ancora in questi giorni tanti over 65 non possono essere al servizio degli altri. E le conseguenze sono molteplici: lo sono per le associazioni stesse e per i singoli. Non sarà una notizia straordinaria segnalare che – per esempio- l’Auser della Valceresio è ferma, proprio per questo discrimine o il far sentire tra color che sono sospesi i volontari over della San Vincenzo o di altre associazioni culturali, ma è fotografare una realtà. E soprattutto capirla, riscrivendo la Gerontown pensando a non mettere da parte i “ vecchi”.
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