-Caro Mauro, quella volta che…
“Caro Massimo, quella volta che scoprii il fascino del cinema”.
-Età adolescenziale?
“Macché, assai prima. Inizio delle scuole elementari”.
-Precoce..
“Precocissimo. Il motivo fu curioso. Mio padre Manlio, direttore dell’Ente provinciale per il turismo, organizzò a Varese dal ’53 al ’55 il festival del cinema. L’Anicagis, ente cui facevano capo i gestori delle sale di proiezione, gli regalò una tessera gratuita per due persone. Poteva entrare dove gli pareva. Cominciai a usarla io, portandomi dietro mio fratello”.
-Da soli…
“Sì, da soli. Avevo, credo, otto anni. Lui circa quattro di meno. Frequentavamo i cinema varesini nel primo pomeriggio. Non c’era quasi nessuno, salvo maschere e cassiere. Due istituzioni. Pericoli, praticamente zero. Tenevamo a mente una raccomandazione di mia madre Anna Maria: guardatevi da un tizio che gira per quei posti e pare dia fastidio ai ragazzini. Il tizio in effetti girava, ma non c’importunò mai”.
-Migravate in ogni sala…
“Tutte. Impero, Gloria, Centrale, Vittoria, perfino il Belfiore di Biumo, all’inizio di viale Belforte. Naturalmente il Politeama. Che aveva una curiosità”.
-Quale?
“A metà proiezione, e se non pioveva, il tetto si apriva per far uscire il fumo delle sigarette. Allora i cinema ne erano nebbiosamente pervasi”.
-Che vedevate, tra le nuvole azzurrognole?
“Western e commedie. Roba americana. La mia passionaccia. Non di mio fratello, che difatti dopo un po’ si stufò di farmi compagnia. E iniziai la carriera di spettatore solitario. Pluridecennale, bisecolare e gratificante”.
-Perché western e commedia?
“Fascino d’un mondo allora d’avanguardia. Il western significava voglia d’avventura, vittoria, potenza. Era una scelta politica: gli Usa trasmettevano un messaggio di rassicurante forza. Idem la commedia: ti mostravano il meglio del bello. Donne bionde, case sciccose, elettrodomestici moderni. Un segnale di prevalenza economica”.
-Funzionò, la scelta?
“Funzionò sì. L’America divenne un modello. Oserei dire: il modello. Grazie, che so, a Rock Hudson, Doris Day, tantissimi altri. La lista dei nomi sarebbe infinita. Non tediamo”.
-Poi il cinema americano cambiò…
“Divenne, nella seconda metà degli anni Sessanta, e anche un po’ prima, di protesta. Anzi, di rabbia. Sul filo d’una letteratura che lo aveva anticipato in questo filone, consolidatosi con il fenomeno Vietnam. Esemplifico: comparve un western, ‘Soldato blu’, in cui per la prima volta i buoni erano i pellerossa e non i bianchi. Fu prodotto anche ‘Un uomo chiamato cavallo’, storia d’una integrazione tra gli uni e gli altri”.
-Stessa qualità dell’epoca precedente?
“Minore. Per il semplice motivo che vennero meno grandi registi, ottimi attori. Certo, avvicendati da omologhi di qualità. Ma non dotati della stessa empatia col pubblico”.
-Dopo l’amore per l’America, quale altro?
“Per la Francia. Cinema intimistico, narrativo, confidenziale. Capace di raccontare la materialità con poesia. Di cogliere il particolare universalmente rivelatore d’un sentimento esistenziale. Qui un nome lo faccio: Claude Sautet, straordinario regista e sceneggiatore. Disse di lui Francois Truffaut: il suo cinema è la vita. E tanto basta. Faccio anche i nomi d’attori italiani francesizzati divenuti mitici: Yves Montand, Michel Piccoli, Serge Reggiani, Lino Ventura”.
-Veniamo in Italia?
“Eccoci qua. Per confermare che siamo stati maestri nella commedia. Risi, Monicelli, Germi, Scola. Tutti fuoriclasse, bravi a creare una tradizione, un seguito, un futuro. Pur se non di quel medesimo, regale segno intellettuale. Commedia poi non vuol dire soltanto sorridere e ridere. Vuol dire meditare e immalinconirsi. Sapevano segnalare i vizi con amaro divertimento. Gl’italiani hanno amato molto il cinema italiano, ma anche gli americani lo hanno amato”.
-Entriamo in qualche dettaglio?
“Due dettagli. Il primo: il celebre scrittore Harold Robbins, che scrisse anche numerose sceneggiature, si meravigliava della nostra virtuosa anarchia. Citava Fellini. Sempre in ritardo di ore sul set, e con idee completamente diverse da quelle del giorno prima. Sicché si doveva ricominciare da zero. Ma si concludeva col capolavoro”:
-Il secondo?
“Gli americani venivano con entusiasmo a produrre film da noi. Perché a Cinecittà, voluta da Mussolini per gratificare il figlio cinefilo Vittorio, c’era grande disponibilità di mezzi. E perché i costi di realizzazione risultavano convenienti. Infine Andreotti aveva proposto, ricevendone l’istituzione, una legge che imponeva di reinvestire in Italia parte dei proventi d’una pellicola qui girata. Varie opportunità che resero gli americani gente di casa nostra. L’ultima, mi scordavo: l’assenza, al tempo, d’obblighi assicurativi per i lavoratori dello spettacolo. O almeno per buona parte di loro”.
-Ti capitava un accidente e buonanotte…
“Per chiarire, un fatterello. Indro Montanelli fu coregista, con Enrico Gras e Mario Craveri, dei ‘Sogni muoiono all’alba’, anno ’61. Innamoratosi di Lea Massari, attrice protagonista in un cast con Gianni Santuccio e Aroldo Tieri, la invitò in una pausa lavorativa a una breve gita in bicicletta. Cadde e si fratturò una gamba. Ritornato sulle stampelle a Cinecittà, un figurante l’apostrofò: ‘A’ Indro, che t’è venuto in mente? Qui non c’hai neppure l’assicurazione’. Non era una battuta, era la realtà”.
-Che sogni muoiono nell’alba d’oggi?
“Non muoiono perché o si dimenticano o restano dentro di noi fino al tramonto. Resteranno. Senza che ce n’accorgiamo”-
-Sono la sceneggiatura segreta della vita?
“Chissà. Che la vita sia un film, è sicuro”.
-Vietato schernirsi…
“Obbligatorio schermarsi. Cin cinema”.
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