Adesso siamo arrivati anche al Family Act, un “disegno di legge” (ossia un progetto di legge del governo) che ufficialmente si chiama “misure per il sostegno e la valorizzazione della famiglia”, ma che lo stesso premier italiano Giuseppe Conte chiama appunto così in inglese sia in Parlamento che nelle sue conferenze stampa. D’altra parte l’abitudine a usare l’inglese al posto dell’italiano — forse credendo di dare così un tono più forte e moderno a ciò che si dice — nasce ben prima di questo governo e di questa maggioranza. Basti pensare al «Family Day» che ebbe luogo a Roma nel maggio 2007 per iniziativa di forze sociali molto lontane da quelle che trovano espressione politica nei partiti che sostengono il governo ora in carica.
L’enfasi sull’inglese come prima e quasi unica lingua straniera da insegnare costantemente nelle scuole italiane, dalla prima infanzia fino all’ultimo anno delle scuole medie superiori, risale poi alle riforme varate da Mariastella Gelmini quando, tra il 2008 e il 2011, fu ministro della Pubblica Istruzione in uno dei governi presieduti da Silvio Berlusconi. Ed è di un ministro dell’Economia dei governi Berlusconi, Giulio Tremonti, l’infelice parola d’ordine delle tre “I” (inglese, informatica, impresa) quale auspicata chiave di volta del processo di ammodernamento della scuola italiana. Siamo cioè di fronte a una crisi culturale generale, che perciò trova eco nelle forze politiche più diverse e anche tra loro più opposte.
Paradossalmente non ne restano indenni nemmeno le sorprendenti campagne di tono neo-nazionalista con cui l’Italia ufficiale mira a sostenere la mobilitazione contro la pandemia (benché il Covid 19 sia un evento planetario il contrasto al quale sfugge per natura sua alla dimensione nazionale). É il caso ad esempio della Croce Rossa Italiana che ha lanciato una raccolta di fondi con una campagna centrata sull’immagine del volto fiero di un giovane uomo, schermato da una mascherina anti-virus bianca, rossa e verde. Sullo sfondo di tanta italianità campeggiano però due motti in inglese, «Beyond the mask» e «Never give up». Segue l’appello «Aiutaci a supportare (…)» che è in italiano, ma in un italiano deformato dall’inglese dove il verbo “sostenere” è stato sostituito da un calco del verbo inglese to support. D’altra parte lo stesso recente confinamento in casa a seguito della pandemia in Italia è stato subito definito lockout e non c’è stato più verso di chiamarlo diversamente.
Se si pensa a quanto penò la popolazione di lingua tedesca che è maggioritaria nell’Alto Adige /SüdTirol per ottenere che in tale territorio anche il tedesco potesse venire riconosciuto come lingua ufficiale, e solo “accanto all’italiano”, viene da ridere o anche da piangere nel vedere Milano percorsa da camioncini di lavanderie, di idraulici, di elettricisti e di fruttivendoli coperti di grandi scritte in inglese, e non di rado in un inglese maccheronico. Come se il mercato di quei bravi artigiani e piccoli commercianti locali fossero non Baggio o Precotto ma Brooklyn e Manhattan. D’altra parte al riguardo il cattivo esempio, come abbiamo visto, viene dall’alto. E non solo dalla politica ma anche dal mondo dell’economia e da altri segmenti dell’èlite. Nelle pagine di attualità economica dei quotidiani capita di trovare frasi in cui un terzo o più dei sostantivi è in inglese. E si tollera che una quantità crescente di prodotti venga messa in vendita in imballaggi corredati solo da descrizioni e da istruzioni in inglese invece che nella lingua ufficiale della Repubblica. In un settore di grande rilievo come quello della telematica la lingua oggi in uso in Italia è poi un creolo fatto di sostantivi per lo più inglesi dove restano in italiano solo le congiunzioni e i verbi base.
Con gli esempi, sempre più spesso grotteschi, di tale situazione si potrebbero riempire pagine e pagine, ma è meglio fermarsi qui e domandarsi piuttosto quali siano le cause di questa grave crisi culturale; e innanzitutto come mai tale stato di cose non susciti alcun allarme tanto nel mondo della cultura quanto in quello della scuola. Tace persino l’Accademia della Crusca, creata a Firenze nel 1583 a presidio della lingua italiana, che oggi vive grazie a finanziamenti del governo di Roma (e che se non erro riceve o ha ricevuto pure sostegno dalla Svizzera italiana).
È diffusa in Italia l’idea che questo bagno di inglese sia quel che ci vuole per entrare da protagonisti nel mondo globalizzato del nostro tempo. Non, come invece è, un neo-monolinguismo d’accatto che apre la via a una globalizzazione subalterna; una globalizzazione non da protagonisti bensì da docili consumatori. Purtroppo ben pochi si accorgono che, se non vuole essere subalterna, la globalizzazione implica la piena consapevolezza della propria identità culturale. Quindi fra l’altro un saldo plurilinguismo costruito a partire dalla propria lingua e possibilmente dal proprio dialetto, poi dalle lingue del vicino, e del quale l’inglese deve essere solo l’ultima tappa.
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