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Politica

QUESTA ODISSEA

EDOARDO ZIN - 26/06/2020

odissea“Non sciupiamo questa crisi!” dice alla televisione il nostro Presidente del Consiglio.

Ha ragione. Guai se da questa crisi non nascesse una nuova società rinvigorita non solo nell’economia, ma anche nello spirito capace di rendere l’uomo più cosciente delle sue miserie morali, più grande nella sua intelligenza e nelle sue creazioni, più sociale e meno economico.

Che cosa ho imparato da questa epidemia?

Ho compreso il senso del limite dell’uomo, della sua finitudine, della non comprensibilità di tutta la realtà e della sua non definitività. In questa odissea ho riconosciuto il rischio di perdere la misura di me stesso: è bastato un virus misterioso e invisibile per costringermi a restare chiuso in casa. Credevo di poter dominare e sono stato dominato, di misurare le difficoltà e venivo misurato, di affidarmi alla razionalità del buon senso e mi dovevo affidare alle regole talora contradditorie stabilite da altri, di essere capace di fuggire il male e il virus ha tentato di aggredirmi. Avevo rubricato gli equilibri interiori come forza vitale ed ho dovuto affrontare i funambolismi dell’ansia. Per non sciupare questa crisi dovrò riacquistare, dovremo rimpossessarci tutti, del senso autentico dell’uomo integrale, unico ed irripetibile, che non separa quello economico, egoista e razionale, da quello politico, cicisbeo del potere, né da quello sociologico, integrato nel sistema. Il senso del limite mi ha fatto assaporare la “giusta misura”: forse finora l’uomo ha cercato più il benessere che l’ingegno, si è accostato alla natura non per contemplarla, ma per sottometterla, ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire e ha impiegato risorse enormi per dominare il pianeta e il cosmo invece di combattere le cause prime che sono alla radice dell’infelicità umana: la povertà, la guerra, le disuguaglianze.

E assieme al limite ho imparato che ho bisogno degli altri. Mai come in questo tempo ho sentito la necessità d’incontrare gli amici, di abbracciarli, di giocare con il nipotino, di avviare una conversazione con chi ho interessi comuni. La mia fragilità mi ha detto che ho bisogno di relazioni senza scopi tangibili, durante i quali non chiedo nulla, ma solo di discorrere col vicino di casa da cui mi separa una siepe di pitosforo. Talvolta sono discorsi banali, altre volte più seri, ricchissimi perché la vita scorre. E arriva l’aiuto:” Domani vado al supermercato. Hai bisogno di qualcosa?”

Dalla relazione con gli altri è fiorita la solidarietà, che è il contrario del gretto individualismo. Questa fratellanza è divenuta spesso disponibilità per i piccoli aiuti di ogni giorno, talvolta servizio, come hanno dimostrato quelle donne e quegli uomini che all’interno di una comunità sono stati vicini alla loro gente: i parroci e i sindaci, gli operatori sanitari che si sono impegnati fino allo stremo delle forze, dimostrando che hanno un cuore che non tollera le sofferenze altrui, pietà e commiserazione, i volontari che si sono messi a disposizione per difendere il bene comune ed hanno riportato in vita le migliori tradizioni della nostra civiltà aprendosi al dolore altrui e abitarlo come una stanza del loro cuore.

Dalla solidarietà vissuta come forma di carità è nata in più persone la nostalgia dell’Infinito. Hanno incontrato Dio non nell’Essere, nel Principio, nella Causa ma nel malato e nel moribondo, espressione di Cristo che si è fatto uomo e che ha ispirato nel profondo del loro cuore talvolta di non credenti, di atei o di agnostici il senso della compassione e dell’infinita misericordia di Dio fino al punto tale di restare vicino al morente per tenergli il polso o per chiudergli gli occhi e raccogliersi in silenzio. In quel momento, in quella stanza asettica, in quell’incontro è nata – ne sono certo – nel loro cuore una traccia divina.

Ma c’è chi ha sofferto la solitudine, preludio della morte. Sono i nostri anziani costretti a restare asserragliati in una stanza di una casa per riposo senza poter avere il conforto della visita di un congiunto. Forse come Giobbe si ponevano domande alle quali non potevano dare risposta e in quelle ore buie avanzava piano piano, come un tarlo nascosto, la senilità, che li obbligava ad “uscire fuori di sé” non per trovare se stessi, ma per perdersi del tutto. I figli, i nipoti erano vicini a loro, sulla strada, quasi ad accompagnarli nel momento in cui un nodo serrava la loro gola. Anch’essi erano affossati in un dolore, forse in un senso di colpa che imponeva di chiedere scusa e tentare di rimediare la loro assenza con un gesto senza il quale la vita potrebbe diventare un peso.

Ho imparato che la medicina – “la più umanistica tra le scienze naturali e la più scientifica tra le scienze umane” (E. D. Pellegrino) – ha il primato sulle scelte politiche. Ho sentito virologi, epidemiologi, infettivologi dimostrare con dati alla mano come poterci difendere dal virus, senza ergersi a dogmatici sulla sconosciuta pandemia. Ma ho udito anche improvvisati cultori di uno “scientismo” pre-galileiano che con le loro affermazioni conferivano alla scienza l’aspetto di una farsa, sollevando problemi maggiori di quanti ne risolvessero. La medicina è fatta di dati, così come la casa è fatta di mattoni! Ci sono stati pubblici amministratori che hanno riconosciuto il primato dei fatti e dimostrato onestà e fedeltà verso la realtà. Hanno vagliato le proposte degli esperti, risolto problemi, conciliato differenti esigenze, non si sono dimostrati eruditi, ma saggi. Altri, invece, hanno preferito la cupidigia dell’esposizione mediatica e maliziosamente hanno dato ascolto non agli esperti, ma ai questuanti di favoritismi.

Quando l’economia ha il predominio sulla politica, accantona la giustizia, non bada più al bene comune, ma all’ interesse individuale, i rapporti sociali vengono regolati non da leggi giuste, ma da norme legalistiche, cavillose, che finiscono a deturpare la centralità dell’uomo.

“Tutto non sarà come prima”- abbiamo sentito enunciare in questi giorni. Il nostro modo di vivere cambierà, dovremo superare con coraggio una grave crisi economica; chiedere alla politica di ritornare alla sostanza dei problemi, abbandonando idee infondate, battute che strappano l’applauso; alla scuola di affrancarsi dai risultati quantificabili e di promuovere legami per accrescerli e di risvegliare nel cuore delle giovani generazioni l’amore per il vero, il bello, il bene; al mondo del lavoro il fascino di sentirsi parte integrante del benessere del paese. Tutti dovremo ritrovare la sobrietà e la semplicità del cibo e della parola, la concordia come virtù del coraggioso, la giustizia sociale che dia il superfluo dei ricchi ai poveri. In poche parole, umanizzare una società che ha fatto dell’odio la sua forza, trasformandola nel moto del cuore che ci spinge a creare e a riparare cose e persone.

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